PERCHE’ MONT SAINT MICHEL

  

Era un giorno freddo e piovoso. Nell’angusto percorso che conduce alla vetta del maestoso convento già cominciava a far buio. E, come succede in viaggio, quando a un tratto ci colgono agitati e incontrollabili pensieri, mi venne fatto di chiedermi perché mai mi trovassi in cammino, perché in Normandia e perché, in un clima così ingrato, a Mont Saint Michel. Che cosa stavo cercando lassù? Sebbene fossi stanco, mi rassegnai all’inevitabile e mi sforzai di trovare una risposta. 

Non tutti i sogni svaniscono all'alba. Il fragore del temporale mi aveva svegliato, interrompendo un sogno discreto, e una leggera brezza stava filtrando dalle ante della finestra che avevo lasciato dischiuse. Qualche minuto di attesa, accesi la lampada e mi alzai. Guardai fuori: quella prima avanguardia di pioggia si era esaurita e un superbo arcobaleno mi fronteggiava nel cielo plumbeo sullo sfondo del mare. Forse il mio sogno stava continuando. Ma, un minuto dopo, l'arcobaleno era scomparso. 

L’alba. Non rappresentava per me solo un ricordo esoterico, ma anche un connubio erotico. L’amore fisico con la mia compagna, Flavia, mi appagava soprattutto appena desto, nel momento in cui il mio inconscio cedeva spazio alla razionalità e ai miei sensi che, accanto al suo bel corpo nudo nel letto, si accendevano con rinnovato vigore dopo il riposo della notte, con la mente ancora sgombra e il mondo tranquillo e ancora ricco di speranze per una nuova giornata. Mi piaceva accarezzarle la schiena, accostarle le labbra alla nuca e svegliarla a piccoli baci. Poi, con calma, con dolcezza, osservarla con un sorriso, con gli occhi dentro agli occhi e manifestarle la mia voglia di lei. Flavia allungava una mano sotto le lenzuola e mi trovava già pronto a bussare al suo giovane corpo e, consapevole di essere lei l’incentivo di quella voglia, mi contraccambiava abbracciandomi e, poco dopo, sarebbe iniziato un altro rapporto d’amore, duraturo, come mi prodigavo di fare, trattenendomi, pur di evitare di concludere troppo presto quel piacere appagando solo me stesso. 

In quella notte d’aprile, prima di coricarci, chiesi a Flavia se, pur essendo ancora freddo, le andasse di lasciare la finestra socchiusa. "Certo, Bernard" mi rispose "Sentiremo meglio il rumore dei flutti, il frusciare del vento e verremo svegliati dal kek-kek-kek dei gabbiani dell’isola". 

Già, il kek-kek-kek, il richiamo della natura. Sentirlo con Flavia. Sentirlo con la persona giusta? Era con Flavia che avrei potuto coltivare il germoglio di poesia che sentivo in fondo al cuore di un maschio datato, ma forse ancor troppo immaturo? 

Frequentavo Flavia da quell’inverno. Mi contraccambiava, ma capivo che mi sentivo attratto più dalla sua bellezza che dai miei sentimenti. All’uscita dal lavoro, un venerdì sera ci trovammo al Vent du Nord, una brasserie belga con cucina, rinomata a Milano per la specialità dei frutti di mare. Flavia ammirò alla parete una foto di Mont Saint Michel e mi disse: "Mi piacerebbe molto visitare questo posto!". 

“La prudenza è una vecchia serva corteggiata dall’incapacità” pensai “o, piuttosto, come nel mio caso, da quella timidezza greve che mi ha accompagnato e afflitto per tutta la mia adolescenza”. Uscimmo dal locale. Non erano ancora le nove. Ci mettemmo in macchina. Partii, viaggiammo tutta la notte e, all'indomani pomeriggio, arrivammo a Mont Saint Michel nel momento in cui le nuvole si stavano spaccando per concederci uno splendido seppur fugace raggio di sole. Durante il tratto finale, infatti, il cielo era punteggiato di nuvole nere che arrivavano cavalcando dal mare e si intrecciavano sopra l’isolotto granitico di Mont Saint Michel. L'eco dei tuoni all'orizzonte e un vento caldo che sapeva di polvere e di elettricità facevano presagire che si stava avvicinando un temporale. E, poco prima di arrivare, si iniziavano a vedere le prime gocce, lucide e pesanti come monete cadute dal cielo. Ma durarono poco. 

Quando ci fermammo, alle falde dell’isola, Flavia, da donna romantica qual era, mi disse con un sorriso “Sai, Bernard, non avrei mai pensato che possedessi tanta creatività da portarmi con uno slancio dall’Italia alla Normandia!”. Certo, eravamo semiaddormentati e stanchi, ma sereni e spensierati. 

Avevo rapito Flavia, avevo realizzato un’idea lampo, una pazza idea, proprio come in quella canzone di successo. Fu un week end di viaggio ma con una meta ambita e con la soddisfazione di appagare subito quel desiderio spontaneo espresso da Flavia alla Brasserie. Sì, un’escursione improvvisata, frutto della nostra complicità. 

Nel divano della nostra camera d’albergo, avevo chiesto a Flavia di ascoltare la sua bella voce che sapevo molto intonata e, rimanendo abbracciati, le chiesi: “Cantami una canzone, Flavia”. Conoscendo i miei gusti, iniziò a canticchiare: “Prima di vederti, ti conoscevo già, in un altro mondo, un mondo senza età, chissà dove, chissà quando hai vissuto con me …”. 

La domenica mattina, dopo l’arcobaleno, il kek-kek-kek dei gabbiani, che roteavano all’orizzonte, fu puntuale. Mi voltai verso il corpo di Flavia, che non lo aveva sentito, così ancora addormentata com’era e semiavvolta da lenzuola azzurre che odoravano di lavanda. Spensi la lampada, non ce n'era più bisogno: il mattino era nella stanza. 

La luce sembrava attraversare il bel viso disteso, assopito di Flavia. Mi inginocchiai accanto a lei e cominciai a baciarla sulla nuca. Flavia si destò e notò il mio sguardo, espressione di benessere e di esigenza insieme. Dal corpo ai sensi: Flavia mi capì subito, perché anche lei mi desiderava e mi era riconoscente per quella fuga esotica e inaspettata. Portammo a termine un completo e soddisfacente rapporto d’amore, un corpo e un’anima, caldi e generosi. 

Nel pomeriggio, come un esercito sconfitto, le nubi fuggivano verso Est, sospinte da un vento fresco che soffiava dalla costa bretone. Ma altre, ancor più minacciose, le inseguivano, a rimpiazzarle. 

Le proposi l’ascesa all’abbazia, ma Flavia si sentiva contenta così. Col cielo così severo, desiderava rimanere in camera magari ad armeggiare sul suo smartphone e magari, così mi illudevo che fosse, a riassaporare col ricordo i bei momenti di quella notte trascorsa insieme. Fu così, che io da solo, avvolto in una cerata da nostromo, mi cimentai nella salita dell’isola-promontorio, la “Piramide dell’Arcangelo” per i francesi. 

Intrapresi il sentiero lastricato che conduce alla soglia dell’Abbazia benedettina, nonché santuario: un capolavoro d’arte gotica, misterioso e dominante alla sommità del monte, interessato da portentose maree e dall’estuario del fiume Couesnon che, tra poesia e paesaggio, separa la Bretagna dalla Normandia. 

Osservando dal basso l’imponenza di quell’edificio, arroccato su uno sperone ardito forgiato dalla natura, mi domandai se chi lo avesse costruito ne fosse stato, a opera finita, del tutto appagato. “Perché non parli?” avrebbe chiesto Michelangelo a Mosè colpendo con stizza un ginocchio di quella statua con un martello. Quanti artisti, al cospetto di un proprio capolavoro, avevano manifestato insoddisfazione? Ghirlandaio sognava quadri più ridenti e Michelangelo monumenti più imponenti. Noi ammiriamo quel che è rimasto di tutto ciò, eppure ci pare degno della loro fatica. Anche noi, comuni cittadini del mondo, sia che ci sentiamo artisti oppure no, esultiamo a ogni vittoria dell’universale sull’accidentale e abbiamo bisogno di questa consolazione per riprendere la lotta contro lo scetticismo in tutto ciò che è umano. 

Quel giorno dunque mi trovavo alle falde di Mont Saint Michel per trarre coraggio e fiducia alla vista di una grande opera dell’uomo. Flavia mi ci aveva indirizzato, ma il divenire dei miei pensieri mi aveva condotto sino a quelle riflessioni. La grandiosa, temeraria audacia di un'architettura sorpresa in solitudine in un giorno così plumbeo e scolorito mi era apparsa inverosimile e conturbante, producendo un effetto sbalorditivo. Mi parve di sognare o di trovarmi di fronte uno scenario teatrale, ma dovevo persuadermi che, invece, tutto era lì, fermo e fissato nella pietra. 

Stanco e infreddolito, mentre il buio era ormai calato incontrastato, tornai sui miei passi verso il mio alloggio. Dalla finestra della nostra camera le antine si aprivano per mostrarmi due stelle negli occhi di Flavia. Tra poco il suo sorriso suadente avrebbe avuto il compito di scaldare un iceberg. Senza parole, come una conchiglia col mare dentro, mi voltai un'ultima volta ad osservare la sagoma rimpicciolita di Mont Saint Michel, per un cenno di saluto. 

Elessi a movente della mia escursione l’esigenza di stupirmi, senza saperne il motivo preciso, e di vivere per poche ore come spettatore, libero da ogni responsabilità, così come si vive una personale, solitaria avventura.

 

Massimo Messa

 

 

 

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piazzascala.it - febbraio 2016