L'ANIMA DEL VIOLINO
 

Stavano cadendo le foglie e con loro se ne andavano i colori caldi dell’autunno, il giallo paglierino misto al marrone ocra intenso, così rappresentativo di quella stagione e del suo clima ancora caldo umido. Il paesaggio perdeva d'intensità. L'incombenza dell’inverno non aveva tardato a farsi sentire. Oriana aveva freddo e nessuna voglia di sistemare l’armadio, aveva sempre odiato i cambi di stagione, non sopportava l’idea di mettere ordine in quel cumulo di indumenti in cui un paio di volte ogni anno ritrovava un po’ di sé stessa, del suo profumo. Da giornalista qual era sentiva la voglia di scrivere, una voglia che avrebbe meritato di essere assecondata. Questa volta non aveva intenzione di occuparsi di cronaca, ma di scrivere di lei, di quei cambiamenti che da mesi la accompagnavano, rielaborare gli ultimi episodi sofferti, come la fine dell'amore tra lei e Alessandro. Alessandro l'aveva tradita nel suo viaggio a Milano con una collega di lavoro. Si era trattato soltanto di attrazione fisica. Ma Oriana non aveva potuto tollerare quella notte di sesso occasionale con quella donna sposata. Non era questione di misura, né di casualità: Alessandro l'aveva tradita e tanto le bastava. Come aveva potuto un uomo così innamorato cedere alla novità, alla libidine, ai sensi, dimenticandosi di lei? Al suo ritorno, il vederli ancora abbracciati in macchina, alle soglie del paese, non era stato semplice, l’aveva quasi tramortita, lasciandole uno senso di stordimento e l’angoscia di trovare un significato che giustificasse il suo amore infranto, per stabilire poi che non vi era una risposta se non l'abbandono di una storia che era durata tre anni di felicità.
Raccolse le matite che la sera prima erano rotolate a terra, mescolate alla cenere sfuggita dal camino: le piaceva sedere accanto al suo fuoco scoppiettante e accogliente.

Il confronto con le emozioni risultava pericoloso. Pensò di uscire, nonostante la pioggia, con il proposito di distrarsi. Si infilò il soprabito avvolgendosi con uno dei suoi foulard dalle tinte accese, forse un po’ troppo estive, e si diresse fuori senza una meta precisa. Le sarebbe servito per assestarsi, per riprendersi le proprie ombre, rimescolarle e trasformarle in energia vitale, costruttiva. D’improvviso, quando ormai era pronta per andarsene, lo squillo stonato del telefono dell'anticamera la riportò alla realtà e trasalì: "Pronto" disse, senza nascondere il disappunto per quella chiamata giunta in un momento intimo così ricercato. Dall’altra parte però, nessuna risposta, a parte il bip cadenzato della linea interrotta, che si ripeteva snervante come una cantilena. Riappese.

La soglia di quel cancello un po’ scolorito era stata varcata del tutto e la sua voglia di tirare il fiato era divenuta più concreta, Oriana salì in macchina, girò decisa la chiave, ed ecco di nuovo lo squillo questa volta del cellulare.
"Pronto!" rispose in tono più secco.
"Oriana, sono io" ribatté la voce dall’altra parte, tono basso e incerto tanto da farle dubitare, per un momento, che il suo interlocutore fosse chi conosceva bene. "Alessandro, ancora tu? Quante volte devo dirtelo? Abbiamo rotto, è finita davvero. Non angosciarmi!".
"Oriana … ti prego, ripensaci, non adesso, non così" la supplicò quell’uomo di cui nulla sembrava più essere sopravvissuto nel presente "Te l’ho promesso, rimedierò. Non lasciarmi, ho il vuoto dentro …".
Così si era pronunciata quella voce tremula e irriconoscibile. Com’era diversa da quella sicura e calda che un tempo l’aveva quasi rapita in un gioco di frasi costruite per ogni circostanza, con la grazia seducente del più attraente tra gli uomini leali. Quell’uomo l’aveva soggiogata tra la dolcezza estrema delle sue carezze e la passione di quelle notti lunghe e irripetibili che le lasciavano il suo odore addosso fino al mattino dopo, tanto da prevalere sul profumo francese che lei indossava. La maturità degli anni conferisce forza agli uomini troppo liberamente. Oriana questo lo aveva sempre saputo, ma non riusciva più a perdonare quell’uomo, non era disposta a farlo. Per quale ragione, si domandava tormentandosi, non era riuscita a padroneggiare quel turbinio di emozioni che l’avevano invasa lasciandole il peso del vuoto e tanta sfiducia nello spirito? Era giunta alla conclusione di come nella vita esistessero due tipi di dolore: quelli provocati da noi stessi, dirette conseguenze del nostro agire, quindi superabili, e quelli calati dall’alto, risultato di un destino indiscusso. Questi ultimi erano ferite aperte, difficili da sanare: la capacità di non trasformarli in traumi permanenti dipendeva dalle risorse interiori che una persona possedeva e dalla forza che aveva sviluppato nel corso della sua stessa vita.
"È finita, Alessandro, non una parola, basta!" fu questa la sua ultima frase, determinata.
Avviò la macchina e affondò il piede sull’acceleratore tra un misto di tristezza da sopportare e di orgoglio da difendere, consapevole di essere tornata libera dalle illusioni di quell’amore che si fondeva con i suoi moti interiori desiderosi di quiete, una quiete che tardava ad arrivare, o che, forse, lei stessa rendeva difficile assecondare.

Guidava a velocità fin troppo elevata e stava attraversando le colline del Mugello: Firenze alle sue spalle era ormai troppo lontana, come la voglia di tornare indietro. L’odore della pioggia diventava tangibile con le goccioline che stavano cospargendo il parabrezza, con il benestare dei tergicristalli. Aveva percorso chilometri senza chiedersi dove stesse andando, in una corsa che aveva dato il la alla rassegna analitica dei suoi anni trascorsi, avvolti da perché che non avrebbero ricevuto risposta. I ricordi l’avevano soggiogata tra stati d’animo agli antipodi, sospesi nel limbo del non senso, spudorati nella capacità di ferirla in ogni lembo di pensiero. Oriana percorse a ritroso lei e Alessandro, in tutte le sfumature di cui avevano saputo contornarsi in quegli anni di vita insieme. Le era tornata alla mente quella mattina così simile a tante altre, quando l’estate, già vestita d’autunno, se n’era andata rapida come il più brusco degli inverni ed aveva scorto Alessandro in macchina amoreggiare con la sua sciagurata collega.

Aveva seminato il panico in quella stanza da letto che le era sempre parsa troppo grande, fino al corridoio del bagno, rovesciando tutto ciò che le si presentava a portata di mano. Per la prima volta, davanti allo specchio, riservato ai rituali del mattino e della sera, si era guardata, stentando a riconoscersi in quei suoi trentasei anni volati via tutti d’un fiato: cosa le sarebbe rimasto se non la presenza fissa della nostalgia? Una nostalgia terribile, di quelle che non riesci ad acquietare. Quante volte le loro parole avevano fatto l’amore scivolando l’una tra la bocca dell’altra? Eppure da quelle braccia Oriana aveva deciso di fuggire, senza voltarsi indietro. Perdere il piacere della sensualità era un prezzo alto da pagare. Ma questa volta Oriana aveva deciso di rinnovare se stessa e, finendo l’ultima sigaretta, in quella che per anni era stata la loro casa, su un pezzo di carta, recuperato dal vecchio tavolo in cucina, aveva scritto:
Alessandro, sappi che la fine segna il mio inizio. Tra le alternative possibili scelgo lo spazio che ora ci separa. Lo affondo nel blu di queste righe composte e lo riaffido a te; perditi in esso e, se ci riesci, inventa nuove parole. La donna che ero è la donna che ancora sono. C’è stato un tempo in cui l’avevo scordato. Oriana.
Da qui aveva preso le mosse quella fuga sulla strada di non ritorno.

Accese l'autoradio, Radio Italia Solo Musica Italiana. Le note di “Gli uomini non cambiano”, sulla voce malinconica di Mia Martini, la riportarono alla lucidità del momento, e alla sua macchina che sembrava perdere energia quasi quanto lei. Oriana si riguardò bene intorno, forse si era persa. "L’hai fatto di nuovo!" si rimproverò "Mai un freno alla tua impulsività. E adesso? Possibile che non ci sia uno straccio di segnaletica? Figurarsi, in queste strade dimenticate da Dio! È la volta che ci rimani tra questi quattro tornanti circondati dal nulla, allora ti passerà il bisogno introspettivo di solitudine … donna testarda che sei!" Parlare a voce alta era un'abitudine che si portava dietro da bambina, un tratto di cui non riusciva e non voleva liberarsi: lo faceva senza prestarci attenzione, scattava in automatico ogni qualvolta si presentasse una situazione particolare. Quella modalità di riflettere riusciva sempre a procurarle un quid di serena rassicurazione. Poi d’un tratto, quasi al confine del lato destro della strada, le sembrò di intravedere una sagoma, forse un uomo: tra quella pioggia che si era fatta ancora più fitta non era facile mettere a fuoco nulla. Rallentò e accostò piano, mentre quella figura iniziava a scorgersi in modo sempre più netto: immobile, sotto una pioggia che non dava cenno di tregua, un uomo era lì, come se stesse aspettando qualcosa o qualcuno, mantenendo sotto il suo braccio destro uno strumento che sembrava essere un violino. Oriana spense la radio e si fermò davanti a lui, non poteva credere che fosse lì, a giudicare dal suo aspetto, fradicio, chissà da quanto tempo! Abbassò il finestrino un po’ diffidente e gli chiese: "Che cosa ci fai sotto questo diluvio? Vuoi una mano?". I suoi occhi incontrarono quelli del ragazzo, penetranti e scuri, così sereni nonostante quell’atmosfera dai colori grigi, preludio di un altro temporale in arrivo: quegli occhi la fissavano nella semplicità più disarmante. Il ragazzo ci mise qualche secondo per risponderle, un tempo che ad Oriana parve interminabile.
"Hai visto che spettacolo?" le chiese ad un tratto.
Come che spettacolo? Com’era possibile una simile osservazione, in una giornata incolore, tra quelle strade che sembravano un labirinto sfacciato senza via di fuga? Oriana stava per salutare in fretta, premere l’acceleratore e proseguire con un misto di sgomento e angoscia dovuto al timore di non riuscire a tornare indietro, quando lui la incalzò, sorprendendola, quasi avesse letto la sua ansia di andarsene.
"Hai mai pensato" le chiese "che quando la pioggia cade così forte, trascina con sé ogni peso che ci portiamo dentro? Ti sei mai fermata ad ascoltarla? Ad ascoltare il suo ritmo intendo: è simile a quello di una danza, sembra quasi la danza dell’anima. Lo senti? Quando cade sulle pietre rimbalzando e colpisce ciò che trova intorno, il ritmo cambia e si fa a singhiozzo; poi ritorna lo stesso, ordinato e perfetto come un meraviglioso tempo in quattro quarti!" sorrise, sollevando il lato destro della bocca e lasciando scivolare le sue parole come la più ovvia delle verità: "Ho solo la musica dentro!".
Oriana non riusciva a mettere a fuoco ciò che stava accadendo, sapeva solo che il suono di quella voce era ancor peggio di quegli occhi irruenti.
"Sali, dai!" disse Oriana senza esitare "sei bagnato!" Ormai era andata e non aveva voglia di pensarci troppo; quel ragazzo e il suo modo surreale di parlare la attiravano più di una calamita.
"Sto lavorando al mio ultimo spartito" disse il ragazzo rompendo il silenzio e l’imbarazzo che accompagnano l’arrivo di uno sconosciuto "Ho bisogno di ascoltare i suoni puri, le assonanze e dissonanze che ci sanno rivelare solo gli eventi naturali, quelli che non sapremmo più decifrare".
"Sei un musicista? Hai un modo strano di comporre, sai! Mi hai spaventata a vederti lì, sul ciglio della strada, fermo quasi fossi un sasso. Il mio nome è Oriana e a quanto pare sono una giornalista distratta, che perde le coordinate temporali fuori dal suo nido. Mi sono persa mentre cercavo di ritrovarmi, è curioso, no? E tu come ti chiami?"
"Niente affatto!" le rispose il ragazzo "Io mi perdo più volte in uno stesso giorno, se ho a che fare con un nuovo ensemble di note! È la parte più affascinante della mia ricerca: per tendere al nuovo bisogna essere disposti a perdere qualcosa, ma la ricompensa è così ambìta che ne vale il prezzo! Ah, mi chiamo Niccolò".
Quelle parole la colpirono: Oriana fermò la macchina che iniziava a dare cenni di sofferenza, era troppo vecchia per reggere il peso di tanta pioggia e temeva che si sarebbe spenta da un momento all’altro, proprio lì nel mezzo dei tornanti che avrebbero dovuto ricondurla a casa.
"Dobbiamo fare una sosta o rischiamo di rimanere qui non so quante ore: sarebbe terribile".
Pronunciò queste parole così in fretta da lasciar trapelare l’imbarazzo che l'accompagnava: era un imbarazzo insolito, nel quale non si riconosceva, del tutto inaspettato, carico di una sensualità che la sconcertava e non concedeva il tempo della pausa di un respiro.
Niccolò rimase in silenzio, senza un minimo cenno di risposta la guardava quasi assorto. Ora che, di colpo, era diventato taciturno e quasi assente, solo l’elettricità, che le sue mani sapevano sprigionare, offriva il segno della sua presenza: quelle mani che Oriana non riusciva a smettere di fissare, tra mille pensieri che la attraversavano. Non ci si poteva fidare di mani come quelle, erano mani che sapevano suonare la musica, fare volare le note e la fantasia al pari dei fumi dell’alcol. Non ci si poteva fidare di una mente come quella, in grado di superare la realtà con l’attimo rubato in un battito di ciglia.
"Quindi sei un compositore, Niccolò" riprese Oriana malcelando un po' di emozione "Qual è il tuo mito: Stradivari, Paganini?".
"Ho sentito interpreti straordinari anche con violini meno famosi. Il suono viene da dentro di noi, non da fuori. Se vuoi, ti faccio ascoltare la mia musica: è lei il mio linguaggio. Tu però promettimi di restare per pochi secondi sospesa con il pensiero. Ce la farai?".
"Me ne starò in silenzio, ad ascoltarti" gli rispose Oriana, rannicchiandosi nel sedile.
"Bene, la musica aiuta a non sentire dentro il silenzio che c’è fuori...".

Si erano fermati a lato di una strada poco agibile: l’acqua si era raccolta entro pozzanghere di terra marrone che le ricordavano tanto le vie del paesino in cui aveva trascorso i suoi anni più belli, tra i racconti di donne che usavano riunirsi verso l’imbrunire dei caldi pomeriggi d’estate, quando le strade si riempivano di sedie trasportate dagli angoli delle cucine ancora calde e in fermento. Insieme, raccolte come una promessa, quelle donne si trovavano per raccontarsi la loro storia quotidiana, mescolando verità a piccole fantasie imbastite a regola d'arte. Oriana le guardava e ascoltava, aspettando inquieta il momento del caffè, caffè nero bollente dal profumo intenso: prenderlo assieme alle altre donne segnava una linea di confine significativa, che preannunciava il passaggio verso l’età adulta, verso quell’essere donna che così tanto la affascinava. Il tintinnio dei cucchiaini e la voce di sua nonna che si confondeva a quella delle altre donne, in una piccola stradina bianca di passaggio, che tante storie aveva accolto e tante altre ancora ne avrebbe restituite.

Il suono vibrato del violino di Niccolò la fece trasalire, interrompendo quel legame con il passato. "Ora ti ascolto" disse Oriana, tradendo nella voce il peso dell’emozione resa più vulnerabile dalla nostalgia del ricordo. Era la stessa emozione che precede il tempo della scoperta, quella che accomuna gli amanti nei loro rituali d’amore, fatti di giochi sottili e tecniche di seduzione lente, leggere, in un desiderio sfiorato prima ancora dalle menti che dalla voluttà dei corpi. Così quel violino iniziò a suonare, in complice accordo con il cadere della pioggia. La sua melodia catturava la sensibilità di Oriana, la sublimava. Era davvero la musica dell’anima: quei suoni aprivano spazi dapprima sconosciuti, colmavano silenzi in grado di liberare il superfluo, ripercorrendo la strada dell’inconscio. La musica di Niccolò era per Oriana un viaggio dell’io nel profondo, un viaggio da cui non si poteva tornare, nel quale i pensieri correvano il rischio di apparire simili a specchi spaccati al centro, poco credibili in ciò che restituivano alla vista: la sua vita in una melodia intrisa di accenti, di un pentagramma che il ragazzo aveva disegnato in modo imprevedibile nella sua mente. Era lei, in un momento così delicato della sua vita, ancora di fronte alle sue scelte che, nel bene o nel male erano state fatte, e ora non le rimaneva che proseguire.

Niccolò smise di suonare, forse si era reso conto di come Oriana lo stesse guardando. Le afferrò la sua mano con fermezza: come era calda quella mano di donna! Un calore che lui non conosceva bene, che Oriana portava con sé, come si porta una valigia che ha i segni del tempo e delle stazioni per le quali è passata. Niccolò avvicinò le sue labbra a quelle di Oriana, erano belle e pronte a sottrarsi alla prima occasione lecita. Ma Oriana sentì la pelle di Niccolò già troppo vicina alla sua e fece un balzo indietro, in fondo era ancora in tempo per ritrarsi.
"A volte mi sento una scheggia impazzita, troppo rapida perfino per me stessa" gli disse di colpo, sperando di mascherare quell’imbarazzo che la faceva sentire fragile. "Tu hai le dissonanze dei tuoi accordi, io il mio vissuto che disegna il futuro a suo piacimento; è lui a decidere dove vuole che io lo segua: il problema è capire se si tratta di un altro giro di giostra o di un salto nel paradiso".
"Forse dovresti ascoltarti e basta e affidarti alla musica che ti suona dentro, è difficile che lei menta. Sono venuto qui ad ascoltare il rumore della pioggia perché solo lei poteva restituirmi il ritmo della musica che stavo perdendo. Sono giorni che viaggio, voglio attraversare l'Appennino e forse tra queste montagne riuscirò a terminare la mia opera, la più complessa di tutte … ma tu non mi hai ancora detto dove stai andando".
Oriana distolse lo sguardo, per affondarlo nel verde degli alberi che li circondavano come in un abbraccio, poi sentì la mano di Niccolò sfiorarle il collo e scostarle i capelli con una dolcezza che aveva scordato: in un’altra dimensione, in un posto non definito e nello stesso istante, lei e Niccolò erano insieme, intenti a bere una tazza di tè caldo, in un antico casolare di fronte a un fuoco rosso come le vibrazioni che accendevano ogni loro gesto a dispetto degli anni trascorsi. In un’altra dimensione, Oriana e Niccolò erano al passo, senza limiti temporali viaggiavano su onde di condivisione che sfuggivano alla quotidianità dell’ovvio: lei lo accarezzava al ritmo di una musica che non conosceva i contorni delle pause.
Niccolò sembrò leggerla tra i pensieri, si avvicinò ad Oriana stringendola a sé. I loro corpi si unirono in quella pioggia che non voleva arrendersi, affondarono l’uno nell’altra tra i piaceri delle bocche che per tutto il tempo non smisero di assaporare i respiri più rapidi e caldi, finché anche le loro menti finirono per fare l’amore. Istantanea di un’unione che sapeva fare a meno dei dettagli della descrizione, Oriana stava facendo l’amore come non le capitava da tempo, tra i giochi di luci e di ombre in cui Niccolò riusciva a trascinarla senza sforzo; senza difese da fare scattare, le rimaneva il piacere puro mescolato all’incoscienza degli anni che da lui la separavano, ma a quello avrebbe pensato in un momento ben diverso.
Poi il piacere estremo raggiunse entrambi: con gli occhi dentro agli occhi, il trionfo dei loro corpi.
"Quando l’ultima nota suonerà, il tuo pensiero avrà sondato l’ultima zona del mio essere e in te annegherò i sensi e ancora ti verrò a cercare. Che donna sei, Oriana? Quanto sei disposta a lasciarti cercare?". Così si espresse Niccolò, spiazzandola. "Quanto concedi di te a uno sconosciuto che ti gode con l'aiuto del caso?".
"Non c’è passante che mi faccia fermare" rispose Oriana infilando una mano tra i capelli, un gesto che faceva spesso con una sinuosità inconsapevole "Il mio viaggio non conosce la parola fine, Niccolò, né ha una città d’arrivo. Sono nomade forse più di te. Sono il tempo che mi è scivolato addosso e le distanze abitate dei miei anni trascorsi. Ho il fuoco dentro che brucia, e conservo i segreti del divenire e del ricordo nel loro continuo alternarsi, aspettando che uno lasci il posto all’altro, condannata come sono a una ricerca di quiete improbabile. Sono la donna che ti ha soccorso sotto la pioggia, fiume in piena dei miei sogni dorati, sono la donna che si nutre della dolcezza eterna del sentire autentico, armonioso e dissonante, proprio come la tua musica".
Niccolò le accarezzò il volto, conosceva la sensazione di perdersi e il coraggio di osare in quella ricerca di cui quella donna gli stava parlando, tuttavia quella donna riusciva a farlo vorticare come una foglia al vento. Al pari della sua musica lui l’aveva denudata, e ora lei gli restituiva il colpo, riassestandolo con eleganza sottile. Entrambi si erano dati, e il risultato era stato la contaminazione di due mondi tanto imprevedibili quanto rapidi; due esistenze a confronto con i loro viaggi di autoscoperta e di esplorazione. La musica di Niccolò non avrebbe più avuto la stessa anima: Oriana aveva finito per insinuarsi tra le note dei suoi accordi, puntuale e inevitabile come un abbellimento su uno spartito.
Niccolò era lì, la guardava con gli occhi sgranati colmi di coraggio e della sfrontatezza tipica dei ventenni: non se ne andava, non spostava di un solo millimetro il suo corpo da quello di Oriana, la teneva stretta in quell’abbraccio che l'aveva penetrata, temeva che, se avesse abbassato lo sguardo, Oriana si sarebbe ridestata da quel sogno appagato e preso la strada del ritorno. Lui non voleva: la voleva ancora e ancora desiderava oltrepassare quello sguardo di donna afflitta dal suo status.

Oriana e Niccolò erano rimasti lì con i loro immaginari dalle tinte troppo personali da potersi raccontare. Un dialogo tacito tra due inconsci, vibrato come l'anima di un violino sotto il cielo plumbeo che li aveva fatti incontrare.

Oriana aprì il finestrino, mentre il buio della sera incombeva su di una giornata indelebile. Guardando il cielo, era consapevole di essersi fermata nello spazio interrato, discosto dalla strada, perché in un frangente particolare della sua vita aveva desiderato quel ragazzo. Oriana domandava a se stessa se il sentimento, il trasporto, la libidine, che l'avevano appena posseduta, fossero paragonabili a quanto aveva consumato Alessandro in quella notte di desideri appagati e se fosse stata retta e non impietosa nel seguire quella drastica decisione...

 

 

Massimo Messa

 

 

 

 

 

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piazzascala.it - febbraio 2017