LA COMPAGNA DELLA SOLITUDINE
 

Monsieur Alain Decroche, ottantadue anni portati con decoro, abitava in un piccolo appartamento in Rue Corvisart, nel XIII arrondissement, e sopravviveva grazie alla sua modesta pensione di dipendente delle ferrovie. Qualche ex-collega con cui giocare a pétanque, nessun amico vero, mai sposato e senza figli, aveva vissuto solo un paio di storie importanti nella sua vita. La fine dell’ultima, intrecciata con una bibliotecaria dai polpacci robusti e dalle doti culinarie superbe - indimenticabili burrose crostate alle more - risaliva a tanti anni prima, quando l’alto valore dei trigliceridi aveva contribuito all’epilogo di quell’amore di pasta frolla.

Da allora si era abituato a stare senza una compagnia femminile. Gli era rimasto poco: un letto ampio tutto per sé, leggere il giornale senza interruzioni al mattino, badare all’igiene personale quanto bastava per vivere in società e dimenticarsi, talvolta, di tirare lo sciacquone del water. I sensi si erano indeboliti, benché il gusto, specie dei dolci, si affermasse, come una medicina, su di un olfatto e un udito ormai consumati. Avrebbe desiderato viaggiare, in fuga dalla monotonia di se stesso, magari svernando in Costa Azzurra, ma non poteva permetterselo. Si accontentava (suo malgrado) della TV, dei giornali e, nei giorni di festa, di una fetta di torta o di qualche scaglia di cioccolato. Per farsi compagnia, talvolta fischiettava la Marsigliese. Aveva cercato di sentirsi ancora rispettabile. Con la scusa della gotta era riuscito a farsi servire sull’uscio di casa il recapito della posta dalla portinaia. Ma era durato poco. La donna se ne era andata altrove e la nuova venuta, bisbetica come una comare, così diversa dalla protagonista dell’Eleganza del riccio, non era disponibile ad accontentarlo. Si chiamava Renée. Dalla sua guardiola assisteva al corso vacuo della vita di quella casa. Grassa, sciatta, scorbutica e teledipendente, era consapevole di non essere stata neppure da giovane piacente, come una portinaia, per l'appunto. In cambio, però, aveva promesso a Monsieur Decroche di far luccicare il suo pianerottolo come un brillante di Topkapi. Alain si era così rifatto con quest’altro privilegio. In verità non era amante della pulizia. Tutt’altro. Ma dei privilegi, sì, persino più di un cioccolato svizzero.

Erano queste le piccole gioie che potevano motivargli la vita?

Di certo no.

E lo capiva bene: era diventato tanto povero d’animo da vedere in bianco e nero anche l’arcobaleno. Di sera prima di prender sonno sapeva di aver vissuto un giorno in più della sua scialba vita, ma anche un giorno in meno. Un giorno in meno era quanto gli restava da vivere. Nelle notti stellate osservava la luna e si diceva con amarezza: “Presto verrò anch'io lassù!”. Ai segnali di quella deriva corrispondeva la malinconia di un uomo solo. Ma, a interrompere quella solitudine dilagante, una femmina si affacciò alla sua esistenza in maniera insolita.

Una sera di aprile, sceso in cortile per buttare la spazzatura, Monsieur Decroche fu attratto da un debole miagolio proveniente dal cassonetto dove una gattina dal pelo rosso, piuttosto malconcia, era stata gettata da qualche orribile persona. Il povero Decroche se la prese con sé, ma incalzò la portinaia affinché trovasse nel palazzo una famiglia disposta a prendersi quell’animaletto misero e sofferente che lui non era adatto ad accudire: di animali non sapeva granché.

Niente da fare. Renée era allergica agli animali, come a tante altre cose.

La gatta si stava rimettendo in piena forma e assaporava il gusto dei pasti in abbondanza e di divani e poltrone fatti apposta per pisolini più animaleschi che umani. E dopo un breve periodo, Monsieur Decroche aveva ben capito la gatta che stava diventando una bella compagnia: generoso nelle coccole e nel cibo lui, educata e accondiscendente al momento giusto lei. Battezzata Lilith, in omaggio alla stravagante passione del padrone per l’esegesi biblica, con il tempo si era trasformata in un massiccio felino, una compagnia più unica che preziosa. Si strusciava sui pantaloni di Alain in cerca di coccole. Le scattò delle fotografie e ne fece dei quadretti che affisse sulle pareti di casa, anche accanto al comodino. Lilith si era abituata, nei pomeriggi di sole, a esplorare il cortile, per sonnecchiare sulla panchina vicino alla fontanella, e a far ritorno a casa non più tardi delle cinque.

Non era mai successo che varcasse il cancello per scendere in strada, circostanza forse attribuibile a misteriosi traumi subiti prima del suo ritrovamento nel cassonetto. Ma il 9 luglio, alle cinque del pomeriggio, Lilith non era, come al solito, rientrata dalla gattaiola ricavata nella porta dell’abitazione. Sorpreso, Decroche scese per controllare e, non vedendola accucciata sulla panchina accanto alla fontanella, ebbe un brutto presentimento. Dopo aver fatto il giro dell’isolato, controllato sotto ogni automobile, analizzata qualsiasi macchia sospetta sui marciapiedi, allargato la ricerca alle vie più vicine e saltato la cena, Decroche tornò a casa a tarda sera in uno stato di estrema preoccupazione.

Se tante sono le novelle di Mille e una notte e cento quelle del Decamerone, a Monsieur Decroche non sarebbe restato altro che la cruda realtà.

Quella notte sognò di affiggere sui lampioni e sui muri del quartiere dei cartelli che offrissero una ricompensa a chi avesse dato indicazioni su Lilith. Grazie a questo sogno da premio Oscar, si destò sollevato, con la soluzione per ritrovarla. Ancora disperato, ma animato da questa prospettiva, scese in portineria e convinse Renée a far passar la voce ai vicini, ad attaccare cartelli e a prendere contatto con l’amministratore di condominio affinché diramasse un dispaccio all’attenzione di tutti gli stabili del XIII arrondissement.

Renée accolse con reticenza questo supplemento di richieste alla sua attività essenziale. Mentre incollava i cartelli ai lampioni della via, rimuginava sul fatto che gli uomini anziani si nutrono di pedanteria e non sanno gestire il proprio status, se non rompendo le scatole al prossimo. Era stato così anche per suo marito Bernard, pace all'anima sua, che da vecchio non aveva saputo far altro che borbottare contro qualsiasi decisione del governo francese. E, nella quotidianità, non aveva saputo far altro che chiederle di preparargli da mangiare, stiragli i pantaloni e così via, come se lei fosse stata una semplice domestica. Mangiare e dormire, Tv e giornale. Cos'altro aveva riempito la giornata di Bernard? Ecco allora che Renée non riusciva a trovar molte differenze tra l'incedere incolore di suo marito e quello di Monsieur Decroche.

 

Nei primi tre giorni, la speranza di Alain era ancora alta e l’attivismo lo rendeva quasi euforico. Poi le aspettative cominciarono man mano a ridimensionarsi fino al crollo definitivo del decimo giorno, quello in cui la portinaia, con un tocco di insensibilità, tolse tutti gli avvisi con cui aveva tappezzato il quartiere: mentre li strappava mormorava tra sé e sé, lapidaria: “Se ne sarà tornata nelle fogne di Parigi quella miserabile bestiaccia!”.

“Quanta fretta! Avreste potuto lasciarli attaccati ancora per un po', Signora Renée!” si lamentò Alain con quel tentativo di donna.

“Rassegnatevi, Monsieur Decroche, quel gatto non tornerà mai più. E' un animale randagio, dovreste saperlo. E, come tale, non vi deve proprio nulla!”.

Inconsolabile, Monsieur Decroche si chiuse in casa e lì rimase a rimuginare sulla sua perdita per i giorni a venire. Smise di frequentare il mondo civile. Aveva messo da parte persino quelle poche regole di pulizia che svolgeva ogni giorno ed eletto a suo unico vestito un pigiama di cotone a righe. Sprofondato nella poltrona preferita di Lilith, passava le ore fissando le fotografie di Lilith appese alle pareti, attento a qualsiasi rumore indistinto che potesse annunciare il ritorno della sua compagna. Quando aveva appetito, molto di rado, piluccava del tonno o dei fagioli, senza apparecchiare: infilava la forchetta direttamente nella confezione. La cioccolata da tempo era finita. Lo stato di prostrazione dell’uomo diventava sempre più allarmante. Correnti di panico si alternavano nella sua povera anima, scossa da una sincope di singhiozzi accorati. Infatti, sempre più di frequente il suo sguardo calava d'entusiasmo e i suoi occhi si colmavano di lacrime. Era come se respirasse l'aria di un funerale senza che vi fosse il morto.

 

Il trentesimo giorno, alle 8 del mattino, una serie di rumori provenienti dal cortile lo destò di soprassalto. Poteva distinguere il motore di un grosso camion, l’abbaiare di un cane di piccola taglia, il pianto di una bambina, le voci di un ragazzino più grande, di uomo e di una donna. Voci dall’accento arabo. Si alzò dalla poltrona e si trascinò alla finestra. Vide una famiglia che stava trasferendosi proprio nel suo stabile, in quel microscopico appartamento al terzo piano che da tempo era disabitato.

La piccola, che poteva avere circa quattro anni, piangeva seduta per terra, mentre il cane le leccava il viso. Karim si chiamava il fratellino. Il padre lo apostrofava di continuo perché desse una mano anche lui. La madre era, nel frattempo, intenta a raccogliere i cocci di un vaso a fiori gialli e blu, che si era infranto, mentre due giovani marocchini stavano trasportando una vetrinetta di foggia orientale. Renée era intervenuta invitando i nuovi venuti a non far tanto chiasso: quello era un condominio rispettabile, se c'era bisogno di ricordarlo. L’immagine non aveva niente di idilliaco, anzi, sembravano tutti agitati e stanchi come è abbastanza normale che sia in simili circostanze. Decroche meditò sui traslochi che non aveva mai fatto, sugli appartamenti che non aveva mai condiviso, sui figli che non aveva avuto... la vita che non aveva vissuto, la vita che non aveva voluto.

Non gli erano mai piaciuti i bambini, ma in quel momento, messo da parte l’egoismo, invidiava quella famiglia compiuta. Se avesse avuto un figlio, come l’avrebbe chiamato. François? Troppo scontato. Pierre? Come si chiamava il nonno di Alain. Sì, forse Pierre sarebbe andato bene. Quante volte l’avrebbe pronunciato se fosse davvero esistito? Quanti traslochi c’erano stati nel corso degli anni vissuti in quella casa? Padri, madri e figli sereni che scorrevano dinanzi ai suoi occhi, come in un film brillante a cui, gli era chiaro, non avrebbe potuto partecipare neppure come comparsa.

 

Dinanzi agli occhi era lo specchio della sua solitudine. Erano passate ormai quattro settimane dalla scomparsa di Lilith, l'unica compagna della solitudine che potesse dargli una ragione di esistere, su cui riversare affetto e farsi scaldare così un cuore freddo e stanco. Monsieur Decroche - perduta la speranza di riaverla - aveva deciso, con calma e razionalità, di non avere più motivi per vivere. Quella sera era gelida e ventosa, troppo fredda perché fosse in un giorno d’estate. Si guardò attorno e si mosse verso il ripostiglio. Tirò fuori scopa, stracci, secchio e detersivo. Pulì tutta la casa da cima a fondo, poi si fece una lunga e accurata doccia, si rasò e si mise un vestito gessato marrone, dei mocassini scuri. Recuperò una sobria cravatta rossa da una scatola sopra l’armadio. Si fece una tazza di tè e, mentre lo sorbiva senza gustarlo, capì che non sarebbe più potuto tornare indietro. Era pronto. Poteva agire. Aveva distillato il suo aspetto nell'intento di ben figurare nel presentarsi nell'aldilà. Alain chiuse gli occhi per un attimo, poi li riaprì, prese la corda che stava in attesa in un cassetto e la fece passare intorno al tubo del gas che correva per un tratto del soffitto della sala da pranzo: il tubo che aveva prescelto per quel suo ultimo atto fatale. Cosparse il cappio di sapone e si sentì aggredito dal batticuore, ma rinfrancato. Come ultimo gesto prima di lasciarsi la porta della sua esistenza alla spalle, tuffò le mani nelle tasche della giacca, tirò fuori le patellette e vi estrasse un paio di palline di naftalina. Le depositò sul tavolino d'ingresso, prese lo sgabello della cucina ed esitò. Il momento fatale meritava un'ultima riflessione: la riconferma della volontà finale come estremo saluto alla realtà conosciuta. Salì sullo sgabello, si mise la corda intorno al collo e incominciò a stringere. La strada per le stelle era iniziata.

 

Un clac clac interruppe i suoi ultimi pensieri d’addio al mondo. Poi un miagolio.

Con grande sorpresa Decroche la vide apparire sulla soglia della sala. Una gioia immensa lo pervase. Gridò il nome della sua amata compagna: “Lilith!”.

La gatta, che si stava leccando una zampa, si fermò un attimo a guardare Monsieur Decroche, poi spiccò un balzo potente sullo sgabello dove poggiavano i piedi malfermi del suo padrone.

Lo sgabello cadde.

 

L’indomani Renée ricevette l’addetto alla lettura dei contatori della luce del condominio.

Lo accompagnò in cantina e sentì dei flebili lamenti. Scoprì che provenivano da una cassetta di legno abbandonata. La raggiunse e, nella penombra, Renée vide una nidiata di quattro micini dagli occhi azzurri semichiusi. Si muovevano a stento, strusciando l’un l’altro sopra un telo consunto con le piccole fauci protese alla ricerca di un sorso di latte: piangevano, cercavano la mamma. 



Massimo Messa

 

 

 

 

 

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piazzascala.it - giugno 2017