RAZIONALITA' VERSUS ORGOGLIO

 


Le era servita quella settimana di aprile a Salisburgo per riflettere, per farsi un esame di coscienza e prendere una decisione? Lucrezia era partita consapevole del suo bilancio poco edificante e non era di certo soddisfatta. Si rapportava a quei dannati dell'Antinferno dantesco che, durante la loro vita, non avevano mai agito, né verso il bene, né verso il male, senza mai osare, senza mai dimostrare una personalità propria. Era fatta così, sapeva solo adeguarsi agli eventi, alle impostazioni di una famiglia austera con un bouquet di tanti figli, dove il padre, imprenditore in un cementificio, aveva sempre dominato, sino alla fine dei suoi giorni. 

C'era andata da sola, a Salisburgo, lei che a quarantacinque anni non aveva ancora saputo affiancare un compagno solido a una vita, la sua, senza onore, né gloria, senza infamia e senza lode. 

Ma il compagno questa volta ci sarebbe stato, sincero e innamorato. Aveva un nome e una storia: Alberto. Lo aveva conosciuto al Rifugio Sciliar 2000 del Touring Club, all'Alpe di Siusi. Le era piaciuto. Era un uomo colto, serio e ben piazzato sul lavoro e, soprattutto, ancora scapolo, cioè col suo stesso status. Non era mai stata fidanzata e forse neppure mai innamorata. Gli uomini che aveva incontrato in tanti anni di gioventù erano appassiti uno dopo l'altro: non le avevano lasciato rimpianti. Ma la passione, quella che si prende l'anima e appaga una donna, occupava un vuoto struggente nel suo cuore. Così era rimasta, con uno specchio che rifletteva il suo viso mentre col passare degli anni s'ammuffiva, come un frutto abbandonato nel cassetto. 

Alberto, all'Alpe di Siusi si era dimostrato un signore rispettoso. Là aveva conosciuto lei e sua sorella Patrizia. Aveva fatto amicizia con entrambe e si era rapportato a loro senza preferenze, su di un piano paritetico. Ma, verso la fine del soggiorno, dopo diverse passeggiate insieme sui sentieri delle Dolomiti, il suo sguardo si era posato su di lei, le sue attenzioni si erano concentrate su di lei, più taciturna di Patrizia, meno solare, e, probabilmente, anche più irreggimentata mentalmente. Oltre alla compagnia e agli sguardi, ai discorsi e alle passeggiate insieme non c'era stato niente di più. Ma al momento della partenza - a Milano per Alberto e a Vicenza per le due sorelle - lui le aveva chiesto di rivederla, a Milano, a Vicenza o in capo al mondo. Sì, era nato un reciproco feeling tra i due. Tante conversazioni fatte a tavola o arrampicandosi con gli scarponi ai piedi erano state condivise con piacere. Le loro vedute su tanti aspetti s'incontravano o, tutt'al più, risultavano complementari e sottintendevano una stima reciproca. 

Si rividero a Vicenza, a Milano o a metà strada, sul Lago di Garda. E, in quel crepuscolo di fine settembre, alle Grotte di Catullo di Sirmione, il primo bacio, la prima mano nei capelli, le braccia attorno alla vita, gli occhi dentro agli occhi. 

Apparivano radiosi come un'alba tersa all'orizzonte sul mare. Entrambi vivevano da soli e l'amore, complice e intrigante, non ebbe ostacoli e lasciò il proprio profumo nelle stanza da single di entrambi. Quell'amore durò qualche mese, tra cui s'infilò lo spazio di una romantica escursione in Sardegna nei giorni di Pasqua. Durò fintantoché la passione ebbe il sopravvento, poi Alberto le chiese una scelta importante: convivere, trasferirsi da lui a Milano. Lucrezia rimase glaciale e bruciò in un frammento quella certezza che lui si era costruito sul loro futuro. Gli disse che era prematuro, che non se la sentiva di lasciare Vicenza, il suo lavoro nell'azienda del padre, la sua famiglia così unita. Ma non fu una risposta rigorosamente negativa. Gli disse che comunque ci avrebbe pensato, chiese tempo come si fa prima di concludere un affare, prima di sottoscrivere un contratto impegnativo. 

Così aveva deciso d'infilarsi nella sua Lancia Ypsilon e di raggiungere Salisburgo, da sola, per meditare. Dal castello al museo di Mozart, alle passeggiate lungo il fiume, lo sguardo non era rivolto alla città, ma all'esame del suo status, al passato e al futuro. Amava Alberto? Se così fosse stato avrebbe dovuto rispondergli subito di sì. Qualcosa non convinceva. Alberto non era un uomo così aperto e disinibito. Da adolescente aveva sofferto di una disfunzione ormonale che lo aveva portato a ingrassare parecchio e, per conseguenza, di un complesso di insicurezza, specie nei rapporti con l'altro sesso, che, in seguito, sebbene rientrato in una struttura corporea più che accettabile, non aveva mai superato. Era colto, intellettivamente superiore alla media, ma non sembrava il tipo che sapeva far divertire una donna. Sessualmente Alberto non le pareva il massimo, ma non aveva molti confronti e aveva sempre temuto il dubbio di essere frigida. Il suo fisico era piacente, ma il suo cervello era più da giocatore di scacchi che da femmina vanitosa. Lui lo aveva capito, ma gli stava bene così: aveva sempre cercato una donna che lo aiutasse a vincere questi timori interiori e a uscire da quella scorza che lo manteneva così controllato. Ma, soprattutto, Alberto aveva dieci anni più di lei e, per Lucrezia, il pensiero di mettersi insieme con un quasi sessantenne la portava a prospettarsi un futuro più da badante che da moglie. 

Affacciata dagli spalti della Fortezza di Hohensalzburg e osservando la sagoma del fiume Salzach che divideva in due la città, Lucrezia si poneva questi problemi e sapeva di doversi dare una risposta. Sapeva anche che quella avrebbe potuto essere l'ultima occasione seria per maritarsi e si domandava quanto fosse ancora disponibile a mantenersi zitella. C'era bisogno di coraggio? Lei non era mai stata un'avanguardista, ma una conservatrice. Dimostrazioni di coraggio sono meno marcate in chi si racchiude nel suo statu quo. Lasciare Vicenza per Milano, una città ancora sconosciuta e troppo grande per lei, lasciare il suo lavoro in azienda e cercare una supplenza da insegnante qual era erano altri ostacoli che frenavano il rinnovamento. 

Un altro fatto poi la disturbava. Da quando lei aveva chiesto tempo ad Alberto per riflettere sulla sua proposta, lui non l'aveva più chiamata, si era chiuso in una nuvola di silenzio ed erano passate ormai più di tre settimane. 

In realtà, Lucrezia non poteva immaginare quanto Alberto ne soffrisse: era un uomo maturo e innamorato, ma sapeva che la mossa toccava a lei, che gli doveva quella risposta, e non avrebbe mai voluto interferire nelle sue riflessioni, né sollecitarla in alcun modo. In quelle condizioni, un altro uomo, meno puntiglioso ma parimenti innamorato, avrebbe accantonato il suo orgoglio e ceduto al suo cuore e avrebbe chiamato la donna di cui era innamorato. Ma Alberto no! Per lui l'orgoglio di un uomo non era merce che si potesse sacrificare con un atteggiamento che avrebbe suonato come un'implorazione. Intendeva tener duro: non doveva essere lui, in quel frangente, ad abbassarsi con uno squillo di telefono. Lo squillo se lo aspettava da Lucrezia, anche se ogni giorno passava in silenzio e si aggiungeva agli altri e alla sua segreta, crescente ansia sentimentale. Accettava questo status di angoscia, ma non sarebbe mai stato disponibile a sacrificare il suo amor proprio, uno status in cui il tempo non era scandito dal ticchettio dell'orologio, bensì dal battito del cuore. 

Lucrezia si era invece sentita al telefono con suo fratello, sua madre e sua sorella Patrizia. Capì che da lì venivano gli affetti, il ricordo di una vita, il calore di una famiglia coesa. Si guardò allo specchio e si disse che non avrebbe potuto cambiare tutto, seppure per un uomo che le voleva bene. 

"Sarà cosa crudele non essere amati quando si ama" pensò "Ma è cosa non meno tormentosa il sentirsi amati a nostro dispetto!" Desiderava ritornare a Vicenza, riabbracciare i suoi, riprendere il suo lavoro in azienda, senza incertezze per il domani ma riconferme dal presente. Davanti allo specchio della sua camera, in una delle gasthaus più graziose di Salisburgo, non versò una lacrima, Lucrezia non sapeva piangere, si guardò fissa negli occhi e si disse di no. Avrebbe pensato poi a come comunicarlo ad Alberto. 

Dopo quella settimana di soggiorno, Lucrezia riprese la sua Ypsilon e, nel primo pomeriggio di un sabato di fine aprile, mentre i primi alberi da frutto si esponevano in fiore in tanti rigogliosi colori, s'incamminò verso il Brennero.

Teneva la velocità abbastanza sostenuta, il percorso in auto per una donna sola è più noioso e in più Lucrezia aveva già riflettuto abbastanza e aveva preso la sua decisione: non viaggiava in compagnia dell'amore, ma di un ritorno al suo ambiente familiare. 

Dopo alcune ore di viaggio, in prossimità di Trento, accese la radio per un po' di musica e un po' di distrazione.

Le solita musica anni '60. Trita e ritrita. Poi, una canzone pure conosciuta, ma sulle cui parole e sulla cui forza emotiva non si era mai soffermata. Perdere l'amore. Le sembrò non finire mai, e ne afferrò con tanto trasporto i contenuti: Voglio restare solo. Con la malinconia volare nel suo cielo. Non chiesi mai chi eri, perché scegliesti me. Era la canzone di Massimo Ranieri, ma, a poco a poco, Lucrezia s'immaginò che la potesse cantare Alberto: Rischi di impazzire, può scoppiarti il cuore. Perdere una donna e avere voglia di morire. Lasciami gridare, rinnegare il cielo, prendere a sassate tutti i sogni ancora in volo. Mentre Ranieri proseguiva la sua canzone di successo, Lucrezia si accorse di sentirsi addosso un brivido alle parole che seguivano: Comunque ti capisco e ammetto che sbagliavo, facevo le tue scelte, chissà che pretendevo, e adesso che rimane di tutto il tempo insieme? Un uomo troppo solo che ancor ti vuol bene. Perdere l'amore quando si fa sera, quando sopra il viso c'è una ruga che non c'era. Provi a ragionare, fai l'indifferente fino a che ti accorgi che non sei servito a niente. E vorresti urlare, soffocare il cielo. sbattere la testa mille volte contro il muro, respirare forte il suo cuscino. Dire: "E' tutta colpa del destino, se non ti ho vicino". Perdere l'amore, maledetta sera che raccoglie i cocci di una vita immaginaria, pensi che domani è un nuovo giorno, ma ripeti "Non me l'aspettavo, non me l'aspettavo"... 

In quella circostanza, Lucrezia si rese conto di aver riflettuto una settimana su se stessa solamente, sul suo status, sul suo futuro più o meno conveniente con Alberto e di non aver mai pensato a come lui l'avrebbe presa, a quanto ci avrebbe sofferto... e le parole di quella canzone le suonavano come un rimprovero, con la voce del suo compagno che da troppo tempo aspettava a Milano la sua cruciale risposta per una svolta di vita. 

Perdere l'amore: ripeteva la canzone, che stava per finire. Ma qualcos'altro stava per iniziare. Due lunghe lacrime rigavano le guance di Lucrezia, lacrime incontenibili, senza fine. 

Alla radio fece seguito un'altra canzone: Io rinascerò, cervo a primavera, oppure diverrò gabbiano da scogliera... Lucrezia spense e si sfregò le guance con una mano. Che cosa stava per fare? Assestare uno scacco matto ad Alberto? Accondiscendere al proprio egoismo, così come aveva fatto per tutta la vita? 

Si accorse allora, forse per la prima volta, che lei non sapeva amare, ma solo ragionare, senza mai abbandonarsi agli impulsi del cuore. "Purtroppo, ci sono anche delle donne così!" si disse, mentre l'ultima lacrima si esauriva. 

Come non capire che la ricerca dell'amore ha spesso forgiato le vite umane e gli eventi della storia? "Ma c'è il tempo per cambiare!" si rispose ancora Lucrezia "Io voglio cambiare, rinascere, finalmente!".  

Il cartello Verona Nord era già passato, ora Lucrezia si trovava verso il bivio Venezia o Milano. Erano quasi le undici di sera, la segnaletica era illuminata, come un promemoria, come un monito. 

Ancora pochi secondi per decidere... 

Lucrezia girò a destra, verso Milano. Verso Alberto. Proseguì per poco, uscì a Brescia Centro e, nel pagare la sua tratta, chiese al casellante se potesse consigliarle un albergo lì vicino. 

Il Motel Luna era a un paio di chilometri. Lo raggiunse. Parcheggiò, prese dalla macchina una valigetta rossa e una borsa e si avviò verso l'ingresso. L'uomo della reception le disse che non vi erano camere singole, ma solo matrimoniali. Se ne fece assegnare una, solo per una notte. "Pagamento anticipato" si sentì rispondere, mentre l'uomo staccava una chiave agganciata a una sfera di ottone dalla teca alle sue spalle. 

Lucrezia aprì la sua borsa ed estrasse un documento e la carta di credito. In quel mentre un uomo, in compagnia di una prostituta brasiliana, entrò dalla bussola di ingresso e un altro usciva palpando le natiche di una donna dell'Est. 

"Dove sono capitata?" si domandò Lucrezia. Si avviò in fretta all'ascensore e salì al settimo piano. Entrò in una camera spartana che sapeva di borotalco scadente e si affrettò a chiudere la porta. La finestra si affacciava sul parcheggio e incorniciava, in lontananza, un tratto di autostrada. Andò in bagno, si lavò la faccia con cura e si guardò di nuovo allo specchio. Le tracce di lacrime erano scomparse. "Ora puoi sorridere, Lucrezia, puoi farlo, ti prego". E Lucrezia sorrise e sussurrò il nome di Alberto. Si toccò i capezzoli e si disse. "Sono tua, Alberto, prendimi ancora, prendimi tutte le volte che vuoi, per sempre... Prendimi come una prostituta, prendimi come vuoi, ma amami ancora, perdona la mia miopia, il mio essere egocentrica". 

In poche ore, nel cervello così razionale di Lucrezia era scattato un interruttore, s'era acceso un barlume che era sfuggito all'oscurità di quella notte e che la faceva sentire per la prima volta felice, euforica, quella che non era mai stata. 

Si spogliò, s'infilò nel letto, che sapeva di vaniglia stantia, e spense la luce. Nel buio, si ricordò la fiaba che talvolta le raccontava suo nonno quand'era piccina, prima di addormentarsi. 

Una sera un anziano capo Apache raccontò al suo nipotino la battaglia che avviene dentro di noi. Gli disse: "La battaglia è tra due lupi che vivono dentro di noi. Uno è infelicità, paura, timore, gelosia, rancore e tanti altri difetti. L'altro è felicità, amore, speranza, serenità, generosità e tante altre verità e virtù". Il piccolo ci pensò un minuto e poi chiese: "Quale lupo vince?". Il nonno rispose semplicemente: "Quello che vuoi tu...Quello a cui darai da mangiare!". 

Come era vera per Lucrezia la morale di quella fiaba in quella notte speciale! E si addormentò col pensiero rivolto al domani, alle poche ore che la dividevano dal domani. Un vento di primavera soffiava forte sulle vetrate della sua stanza e i suoi occhi si chiusero come se fosse volata su un petalo di rosa, impalpabile e profumato. 

L'alba che Lucrezia aspettava arrivò più presto di quanto pensasse. Quel giorno avrebbe dato colore alla sua vita. Si cambiò d'abito, si fece bella, d'una bellezza rinnovata, quella che ha il viso di chi ha pianto e ora sorride. Pochi minuti in tutto, e il suo dito già pigiava il pulsante dell'ascensore, per allontanarsi il più in fretta possibile da quello squallido luogo di incontri in fila indiana. 

Il domani fu all'autogrill di Bergamo per un cappuccio e un cornetto e, poco più tardi, a Milano, di fronte alla porta di casa di Alberto, alle otto del mattino. Si domandò con quale contegno avrebbe potuto presentarsi al suo compagno. "Forse faccio troppa pena per esibire uno sguardo perfetto!" si schernì. 

Suonò il campanello. 

Non ebbe importanza quanto tempo Lucrezia attese su quell'atrio accanto allo zerbino. Lucrezia era cresciuta e il mondo era cambiato intorno a lei. La sua unica possibilità di vita sarebbe ricominciata dal momento esatto in cui si erano interrotti. Un soffio di vento accompagnò l'apertura della porta. Alberto, scapigliato e in ciabatte, senza parole l'abbracciò, le prese la bocca con la sua e, dopo un primo, prezioso bacio, con un fil di voce che svuotava di tanta ansia il suo orgoglio e gli allargava il cuore con quel sogno realizzato, le sussurrò: "Sei come la primavera, Lucrezia, mi fai rinascere col tuo ritorno!". 

Per la seconda volta, in poco tempo, Lucrezia aveva ripreso a piangere. A dirotto!

 

Massimo Messa

 

 

 

 

 

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piazzascala.it -agosto 2016