IL GREMBO DI LAVINIA

 

S'alzava l’alba di un giorno d’inverno, mentre Lavinia portava scritta sul volto la sua pena. Tremava. Nell'attesa del proprio turno in quella sfida fatale, fra i lunghi capelli rossi, tremava! I verdi occhi piangevano. Già s'era dissolta la gioia del miracolo della natura che teneva in grembo, eppure ne era ben consapevole! Ora e non allora si decidevan le sorti per lei e la sua creatura, così come per Sofia e Caterina. Dopo di loro sarebbe toccato a lei. Sapeva quanto fosse vana le speranza di salvarsi. Non le restava che aspettare il destino delle prime due contendenti e, nell'attesa, pregare il cielo che un angelo l'aiutasse, le portasse il coraggio necessario.
Quando l’uomo era entrato in quella vecchia taverna, seguito dalle tre donne, tutte in evidente stato di gravidanza, Lavinia s'era accorta di come l’oste avesse osservato con occhi già stanchi e arrossati l’insolita compagnia. “Tutte incinte” lo sentì rimuginare tra sé mentre, invano, egli cercava di carpire il volto dell’uomo, nascosto, com’era, dal cappuccio di un nero mantello e pareva domandarsi cosa diavolo volessero a quell’ora.
Ora tutti quanti s'eran in qualche modo accomodati: le donne, liberate dai loro mantelli, s'erano disposte attorno al fuoco vivo, l'uomo sullo scranno attorno al tavolo all'ombra della volta. L'oste s'avvicinò per la comanda: “Che cosa possa fare per lor signori?”.
“Niente che vi costi fatica, oste!” e, così dicendo, l’uomo estrasse dalla bisaccia una scacchiera di legno d’ulivo, la depose sul tavolaccio e iniziò ad allinearne i pezzi nell’ordine voluto dal gioco. Poi, con voce di chi abituato non è a sentir repliche, aggiunse: “Che il fuoco nel camino sia ben vivo, che ho il gelo nelle vene. E questa è la mercede”. Così dicendo gettò a terra, nei pressi del camino, tre monete all’oste sconosciute. Ma che subito egli intuì esser d’oro e che raccolse con la mano destra, mentre già con la sinistra poneva al fuoco un ciocco d’acero.
Mentre l’uomo già fissava la scacchiera, esclamò: “Sono pronto!”. La voce era dura.
“Eccomi”, rispose una di quelle, prendendo posto di fronte a lui. Era giovane e bella, di quella bellezza florida e pacata propria delle donne incinte.
L’avversario abbassò il capo sulla scacchiera: “A voi i ‘bianchi’”.
Ebbe così inizio la prima partita.
Lavinia osservava sconsolata, sapeva che la sua compagna non ce l'avrebbe fatta, a meno d'un miracolo, ma sapeva anche che i miracoli a questo mondo son riservati ai ricchi e che a delle povere sciagurate come loro nessuno avrebbe mai badato.
Sofia attaccò subito di cavallo e continuò sempre attaccando con la disperazione di chi si sente perdente e vuol togliersi un peso.
Nella foga non si avvide della ragnatela che il “nero”, difendendosi, tesseva.
E il contrattacco non tardò: per salvare la torre, il “bianco” perse un alfiere e poi, per proteggere il re, perse la regina.
La donna via via sembrava piegarsi sotto il peso della sconfitta. Il viso si intristiva a ogni mossa e gli occhi chiedevano pietà.
“Scacco al re… scacco al re… matto!”. Con nessuna esultanza.
Sofia si alzò. Adesso piangeva sommessamente, tornò vicino al fuoco aggiustando istintivamente le pieghe sul davanti del vestito, un vestito vuoto e troppo ampio, ridicolo sul ventre, ora, stranamente, quasi rientrante per la sua magrezza. Sedendosi, Sofia si piegò in due, tanto che la fronte le toccava le ginocchia. La mano gentile di Lavinia cercò di consolarla carezzandole i capelli. Anche Lavinia si struggeva, tenendosi le mani sul ventre gravido come per proteggerlo dalla sventura.
La scacchiera era di nuovo pronta: ora toccava a Caterina. Ella da tempo si preparava nelle lunghe serate mentre sentiva crescere in seno quell’essere, e per lui sognava e non di rado il nascere del sole spuntava su di una notte insonne.
Decise di impostare la partita sulla difensiva, sperando di fiaccare la resistenza dell’uomo e, intravedendone la possibilità, passare poi all’attacco. Mosse il pedone, quasi con cautela. E ogni mossa successiva fu studiatamente lenta e ponderata: ogni pezzo difeso per quanto possibile. Un gioco noioso, forse, ma Caterina avvertiva di non voler e non poter perdere.
Lavinia aveva seguito ogni mossa, sin dalla prima, e un lampo di speranza s'accese nei suoi occhi.
Il “nero” non manifestò insofferenza a questo tipo di impostazione: mosse invece i suoi pezzi con celerità, senza titubanze apparenti.
La partita durava già da oltre due ore, per buona parte dovute alla lentezza della donna, quando l’uomo propose una sosta per il pranzo: “Oste, portaci del cibo, purché di sapore e fa sì che a lamentarci non s’abbia!”. Nel proferir queste parole si tolse il mantello e coprì alla vista la scacchiera con i pezzi rimasti.
“Agli ordini, messere. Posso lor servire minestra d’orzo, rinfrescante, per le signore, dato lo stato. Brodo di maiale, roba di casa. Arrosti di montone, cosce di vitello che sta cocendo or ora. Lascio a lor signori giudicare. Nel frattempo porto del vino rosso, se a loro aggrada”.
“Chiacchierone, tieni!”, e comparvero nuove monete d’oro che, altrettanto velocemente scomparvero nelle saccocce dell’oste.
Durante il pranzo nessuno parlò: ci fu soltanto qualche sguardo d’intesa preoccupato, tra le donne.
Sofia neppure assaggiò il cibo e tenne per tutto il tempo le mani aperte sull’ampia gonna.
Caterina guardava al nero mantello come a un pensiero fisso.
Lavinia scandiva col battito del cuore il tempo che la separava dall'imponderabile. Ella aveva riposto l'ultima illusione su quelle che potevan essere le prodezze di Caterina. Con ansia viveva quel momento.
L’uomo fu l’unico che parve godere del cibo e del vino.
Al momento giusto l’oste sparecchiò veloce, né si preoccupò se avessero gradito le vivande. Pagato l’avevano e tanto gli bastava.
La partita stava riprendendo.
L’uomo scoprì la scacchiera e, spostando un alfiere lungo tutto il campo, sussurrò con un ghigno: “Scacco matto!”.
“Non può essere vero, no!” pensò Caterina, ma subito si rese conto della sconfitta.
Non pianse, ma un leggero tremore la scosse e le mani cercarono il ventre che le si svuotava. Il ventre e il cuore.
Soffrendo, adesso diventava donna, non allora!
Pensò a una reazione, pur non sapendo quale, ma continuò stringendo la stoffa della sottana.
Come una innocente sospinta al patibolo, Lavinia, s'alzò di scatto e osservò sulla scacchiera i pezzi già allineati che attendevano la nuova partita, l'ultima, quando scricchiolò la porta della locanda ed entrò una donna.
“Jesus, un’altra giumenta gravida!” pensò l’oste esaminando il grembo della nuova venuta.
La donna scansò Lavinia dalla sedia che stava andando a occupare e le fece cenno di ritornare accanto al fuoco. “Signore” disse la donna rivolgendosi al giocatore “vorrei cimentarmi nel gioco che vedo da voi preferito”.
“Con sommo piacere. Qual è il vostro nome, o sconosciuta?”
“Vitaliana, ma più brevemente mi chiamano: Vita. Posso ora sapere il vostro?”.
“Se sconfitto io uscirò, potrete chiederlo, se vinco da voi lo capirete. A voi la prima mossa”.
“No, che a decider sia la sorte” e serrò in ciascun pugno un pezzo di colore diverso.
“La destra”.
“Il bianco a voi, messere!”.
La calma che mostrava stupì le altre donne, ora più che mai interessate alla tenzone.
E dopo venti mosse, l’uomo già soffriva la disperata situazione: lo si vedeva come si vedeva negli occhi della donna tutta la risolutezza di chi vuole superare una prova definitiva.
La mano dell’uomo, prima così decisa, ora vagava come un pendolo sulla scacchiera.
La situazione divenne presto insostenibile.
La fine si avvicinava: l’abile giocatrice era ora in grado di dare il matto in sole tre mosse.
L’uomo accettò la sconfitta facendo cadere il suo re bianco e disponendolo in maniera orizzontale sulla scacchiera.
Vita abbandonò il tavolo, sorrise alle due donne sconfitte, in piedi attorno a lei. Prese la mano di Lavinia, che sentì muovere nel seno quella creatura che conservava il suo miracolo. Uscì con lei dal locale, lasciando l’uomo nel suo nero mantello vuoto.
Fuori era già notte. Gli occhi verdi di Lavinia guardarono le stelle e videro... un angelo. Lavinia era salva!
La luna piena, come dice il poeta, invitava a raccogliere i frutti dell'amore.

Luna piena,
Notte serena.
Quarto di luna,
porta fortuna.
Luna crescente,
cuore ardente.
Luna calante,
notte da amante.

 

Massimo Messa

 

 

 

 

 

 

 

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piazzascala.it - aprile 2016