IL VOLTO DI GIUDA
Il
messaggio in segreteria aveva turbato il venerando frate
domenicano Conan Walsh più di quanto non avesse fatto il
tragitto aereo Roma-Dublino. Ritornava in Irlanda dopo molti
anni. Aveva dubitato a lungo sull’opportunità del viaggio. Ma
quella voce autorevole, proveniente dal passato, aveva reso le
sue notti più agitate del solito. Non era riuscito a vincere
l’insistenza del professor Oscar Lynch che, ormai da settimane,
desiderava che si recasse alla National Gallery of Ireland a
rivedere dal vivo l’opera di Caravaggio dopo il restauro, per
verificarla di persona e avvalorarla con il suo parere.
Da quando, ai tempi del seminario e dell'università, avevano
collaborato ai testi su Artemisia Gentileschi e su Gerrit van
Honthorst, sembrava che Lynch si fidasse solo del giudizio dello
studioso domenicano, della sua validazione. A quell'epoca
frequentavano l'italiano Sergio Benedetti, restauratore
eccellente, specializzato sui quadri caravaggeschi, che era
stato chiamato a Dublino proprio per il restauro dell'ultimo
Caravaggio, quello ritrovato nelle cantine di un monastero,
malridotto a tal punto da aver perso, in misura irrimediabile,
il volto di taluni personaggi che accerchiavano il Cristo. Si
ricordò anche dei diverbi che aveva avuto col Benedetti sulle
modalità del restauro e sulle tonalità dei colori da utilizzare.
Secondo padre Walsh, soltanto la figura di Gesù sarebbe dovuta
restare illuminata, lasciando le altre in penombra. Ma il suo
interlocutore non era del tutto d'accordo. Si ricordò anche di
quando il Benedetti, nel corso della loro ultima riunione al
Trinity College, lo aveva osservato con insistenza per ricavarne
alla fine il suo ritratto a matita su un pezzo di carta per
appunti: un viso non ancora avvizzito, ma già calvo e barbuto e
non scevro dalle prime rughe di un'età già matura.
Si svegliò di soprassalto al momento dell'atterraggio
dell'aereo. Ormai erano anni che non riusciva a dormire in
maniera continuativa. Il silenzio e il buio della sua stanza
romana lo opprimevano, mentre le luci, il rumore e i continui
annunci di promozioni, snack o altro del volo che aveva deciso
di prendere nonostante le obiezioni del suo medico, avevano
sortito il gradito effetto di non farsi sentire solo con i suoi
pensieri e indotto un piacevole torpore.
All'apertura del portello una pioggia gelata aveva investito i
passeggeri in attesa dello sbarco. Walsh non dimenticava la sua
mole, 240 libbre non esenti dalla botte di grassi che gli
delineava l'addome, scese gli scalini con prudenza, calcandosi
il cappello sulla testa calva e impugnando ben salda la
ventiquattrore che portava con sé. Diede uno sguardo al cielo
inclemente: aveva lasciato una Roma primaverile per una Dublino
fredda e grigia. Si infilò con cautela nel pullmino.
Salito sul taxi aveva cercato di respingere tutti i ricordi
dolorosi che lo legavano all’Irlanda. Ma la voce ancora
giovanile di Agatha, ascoltata al telefono, lo aveva scosso nel
profondo. Anche lei lo aveva chiamato, per conto del professore,
per convincerlo a partire. Avvertì una potente sensazione di
vertigine e non si curò delle proteste del tassista quando
abbassò il finestrino per farsi investire dall’aria pungente.
Tornò a respirare. Man mano che l'auto entrava in città
riaffioravano in lui i ricordi di un periodo intenso della
propria vita: le lunghe passeggiate nel Phoenix Park, l'ascolto
delle prove del coro nella St Mary's Chapel of Ease. Ebbe la
sensazione che la provincia di Leinster e la città non si
fossero accorte della sua assenza e avessero conservato
quell’aura romanzesca che tanto colpiva l’immaginario degli
stranieri. Riscoprì la peculiare alternanza degli eleganti
edifici della tradizione architettonica georgiana, le solitarie
facciate in cemento grezzo che sorgevano in terreni
apparentemente abbandonati, le porte degli ingressi piene di
colori intensi, blu, rosse, gialle, a ingannare il grigio
inverno irlandese. Rivide nelle espressioni di alcuni passanti
lo stesso carattere dei truculenti e incorreggibili personaggi
che, in gioventù, aveva imparato ad amare. Quando imboccarono
Grafton Street abbandonò quella lieve malinconia a cui si stava
già abituando e si accorse che era troppo tardi per costringere
il tassista a evitare l’angolo con Nassau Street. L’immagine del
Porterhouse Central Pub corrispondeva con esattezza al ricordo
che conservava con intimo pudore. Il taxi si fermò al semaforo,
come per un segno di indulgenza verso un'osservazione
interessata. Il locale non sembrava aver subito alcun
cambiamento dopo tanti anni: grandi finestre e solidi interni di
legno scuro, uomini qualunque appollaiati su sgabelli vissuti
che sorseggiavano l'ennesima pinta, buttando lo sguardo al
televisore sempre acceso su programmi sportivi. Padre Conan non
poté evitare di sottrarsi, per un minuto, alla vivida memoria
degli incontri del piccolo ed eterogeneo gruppo di persone che
si incontravano al primo piano di quello stesso edificio,
nell’appartamento della dottoressa Chiaretti, per studiare la
lingua italiana, motivati dal sacro furore intellettuale di
riuscire, un giorno, ad affrontare la Commedia dantesca in
lingua originale. Prima di ogni lezione era solito fermarsi, in
compagnia di Oscar, proprio in quel pub a prendere un tè
bollente che li aiutasse a difendersi dal freddo aspro di quegli
inverni. Forse era stato un temerario, anzi no, uno sprovveduto,
a frequentarla. Ma Agatha lavorava lì. Il carattere esuberante
della donna, caratteristico delle tante irlandesi che abitavano
la città, arricchito da una nota intima e affettuosa, aveva
seminato nell’animo del confratello un delicato sentimento di
curiosità che sarebbe germogliato, del tutto imprevedibile, in
una passione vietata. Agatha serviva al loro tavolo il tè nero
accompagnandolo con fette di torta di mele e chiacchiere vivaci.
Si capiva che era incuriosita da quel gruppo che parlava di
arte, di Rinascimento e cercava di leggere Dante in italiano.
Galeotto fu quel libro del divin poeta. Dapprima fu per lei solo
una chimera. Poi qualcosa accadde. Fu il giorno in cui gli
avrebbe consentito di sfiorarle la gonna. Il pentimento,
particolarmente sofferto, che ne era seguito non era stato
affatto sufficiente ad evitare che il priore provinciale gli
propinasse una lettera di monito e di denuncia. Da anni, ormai,
quando tornava con la mente a quell’infelice pomeriggio in cui
l'aveva ricevuta, precipitava in uno stato di prostrazione
invincibile che soltanto le indulgenti parole del suo confessore
potevano acquietare. Il ricordo del bel viso di Agatha gli
provocò una dolorosa fitta al petto. Per un lungo minuto si
sentì mancare il respiro. Fu colto da un nuovo stato
d’agitazione ma, superato l’angolo, cercò di ricomporsi, spiegò
la veste sulle ginocchia e sistemò l’ampio scapolare bianco
dell’abito. Arrivati in Merrion Square pagò il tassista, scese
dall’auto e provò a scrollarsi di dosso il malumore, assumendo
una postura che apparisse conveniente. Con la valigetta stretta
nella mano sinistra attraversò la strada e salì i gradini del
National Gallery of Ireland. Nonostante il freddo penetrante,
continuava ad avvertire una sgradevole sensazione di calore che
gli avvolgeva le spalle. Una comitiva di turisti spagnoli, in
attesa della guida, occupava lo spazio antistante l'entrata del
museo. Si guardò intorno cercando un volto amico. Dall’altra
parte della piazza un uomo piuttosto basso, con folti capelli
rossicci, avanzava a passi brevi e rapidi. Riconobbe il
professor Lynch dal perfetto ovale della testa che si agitava ad
ogni passo sul bavero alzato del pesante montgomery. Gli andò
incontro scendendo un paio di gradini e lo abbracciò con
trasporto.
"Grazie di essere venuto, Oscar. Seguimi, entriamo dalla porta
laterale".
Il malessere che lo aveva accompagnato dal risveglio sembrò
svanire quando si mise al passo del compagno per non perdere
terreno. Solo quando girarono l’angolo si accorse di avere il
fiato corto forse a causa della posizione innaturale della testa
che teneva abbassata sul petto per tagliare la forza del vento
che ora li investiva senza fare cerimonie. Aggirato un paio di
transenne e salutati due guardiani con un cenno del capo, Lynch
si infilò in una porticina di servizio proprio a metà della
facciata sinistra dell’edificio.
Appena dentro, Conan si liberò volentieri del cappotto e cercò
nelle ampie tasche le caramelle per combattere il mal di gola
che d'inverno portava sempre con sé. Alla loro destra si apriva
la soglia del bagno; Conan chiese un paio di minuti al suo
accompagnatore e vi entrò. Allo specchio si accorse di avere
entrambi gli occhi arrossati ed ebbe la nitida impressione che
la barba troppo lunga, nel tentativo di inghiottire le labbra
screpolate, disegnasse il volto di un uomo che non avrebbe
esitato a definire vetusto. Era sicuro che se gli fosse capitato
di trovare in un cassetto di casa quell’immagine stampata su di
una fotografia non ne avrebbe riconosciuto il proprio ritratto.
Dove erano finiti il suo smalto impeccabile, i suoi amabili
sorrisi, le risposte acute e fulminanti, la sua determinazione a
lottare contro le ingiustizie e a proteggere i più deboli? Non
era più tutto ciò da tanti anni ormai: un lento disfacimento del
suo corpo l'aveva disgregato. Ma soltanto allora se ne rendeva
conto.
Si rinfrescò per un lungo minuto, raggiunse il professor Lynch e
ripresero ad incedere, alla luce del corridoio che si apriva
davanti a loro, imboccarono una porta sulla sinistra e scesero
un paio di rampe di scale con quella sorprendente disinvoltura
che riesce a esibire solo chi intenda nascondere la propria
corpulenta stazza. Conan cercò di non scivolare sul marmo scuro
dei gradini. "Vedrai," gli disse Oscar, mentre lo aspettava al
termine della rampa "questa mattina ho telefonato a New York, a
Jonathan Harr, sai l'autore del libro Il Caravaggio perduto, e
gli ho confermato l’impressione che ho avuto guardando l’opera
la prima volta. Sono sicuro che rimarrai strabiliato da questa
scoperta!".
Ormai Lynch, accortosi delle incertezze di Conan, faceva solo un
paio di passi rapidi, poi si fermava ad aspettare e di nuovo
guadagnava terreno prima di fermarsi ancora. "Il viaggio sarà
stato sicuramente faticoso, spero che tu abbia riposato un po’"
proseguì, come per un rituale.
Ora si lasciavano alle spalle una sala dopo l’altra senza
prestare alcuna attenzione alle opere che riempivano le pareti.
Il frate domenicano camminava come se non si accorgesse in alcun
modo dei visitatori, delle guide che sussurravano nei microfoni
come se si trovassero in Chiesa o dei bambini che lo osservavano
incuriositi trovando nelle sue vesti una ragione della sacralità
dell’atmosfera in cui avrebbe dovuto essere immerso.
Il prelato avvertiva ora un insistito formicolio alle mani
mentre una fitta di dolore allo stomaco lo coglieva ogni due
passi. Rallentò, cercò il fazzoletto nella tasca destra
dell’abito e si tamponò rapidamente la fronte schiarendosi la
gola.
La sala era sapientemente illuminata. Un’ampia vetrata si apriva
sul soffitto lasciando entrare una luce resa rarefatta dalle
grandi nuvole che proiettavano delle ombre allungate su tutto
l’edificio. L’opera era posta sulla parete alla loro destra e
dei faretti appena sopra la cornice ne illuminavano debolmente i
contorni. "Eccolo!" affermò con enfasi il Professor Lynch
"Osservalo bene e sappimi dire". Padre Conan avanzò fino a
portarsi a un paio di passi dal dipinto. Sembrava un quadro
appena terminato e nulla faceva pensare alle centinaia d'anni
che erano trascorsi né all'odissea sofferta che lo aveva fatto
sbarcare a Dublino. Ripensò allora all'opera di restauro e si
disse: "Sergio Benedetti docet".
Il volto triste e consapevole del Cristo, i riflessi di luce
bianca che rimbalzavano sulle armature dei soldati rinnovavano
nel frate la sorpresa che proprio il maestro delle tenebre fosse
probabilmente il più inimitabile ritrattista della luce. Il
realismo della fotografia gli restituì l’immagine di Giuda
Iscariota. La linea del profilo sinistro, l’arcata
sopraccigliare, il naso robusto, la calvizie, ma soprattutto lo
sguardo assente e al tempo stesso tardivamente consapevole di
una colpa imperdonabile, ricalcavano il ritratto dell’uomo che
aveva appena osservato allo specchio del bagno: i pochi capelli
ai lati, la barba folta e il naso da plebeo, l'incarnato
pallido. Sono forse io, Signore? Era il ritratto del suo viso:
quello abbozzato, su di un foglio di appunti, dal Benedetti al
Trinity College. Certamente! Sbatté le palpebre per cancellare
il turbamento e tornare a guardare la figura con maggior
attenzione. La somiglianza era stupefacente. Avvertì la
sensazione di stordimento che si prova, nel sogno, quando si
precipita nel vuoto. Immobile, sentiva un crescente senso di
nausea che quanto visto aveva scatenato. D’un tratto i colori
apparvero di uno splendore soprannaturale; i drappeggi,
vivificati, lo abbagliarono. Scrollò il capo nel tentativo
disperato di arrestare quelle visioni. Poi l’immagine sembrò
muoversi, agitarsi, quasi ruotare e le figure presero a
confondersi le une nelle altre. Le linee e i contorni sbiadirono
in un vortice. Subì la violenta impressione che i colori
lottassero per liberarsi della tela. Indietreggiò minacciato
dalle forme ormai indistinte. Solo il volto di Giuda rimaneva
nitido al suo sguardo. Sentii le urla di San Giovanni e il
sangue che rombava battendo forte contro i suoi timpani. D'un
tratto i suoi occhi furono accecati dalla luce riflessa dalle
armature. Ed era lì: apostolo costretto a baciare il Salvatore,
prigioniero della sua colpa per l'eternità, condannato a
ripetere quel gesto fino alla fine dei tempi. Una densa pece
nera avviluppò il suo corpo e cadde a terra, sprofondando negli
abissi della notte. La nuca batteva al ritmo forsennato del
cuore. La vista si annebbiò. Seguì un’insolita sensazione di
perdita dell’equilibrio. Cercò invano il sostegno di Oscar. Un
dolore insopportabile al petto. Poi, d’improvviso, il buio. Il
suo corpo cadde con un tonfo sordo quanto fatidico e perciò
inevitabile.
Sul pavimento era rimasta una statua di sale.
Massimo Messa |