LA RAGAZZA EVANESCENTE
 

Le cicale non smettevano d'intonare con forza il loro concerto in quella torrida giornata dell'anno 2000, tra gli ulivi del Mare di Creta. Erano i primi giorni di giugno, ma il caldo ormai era quello dei tuffi dagli scogli e di una bella nuotata sino al largo. Benché mi fossi levato presto dalla mia camera di Chania, s'era già fatto mezzogiorno. Il reportage era a buon punto, la mia borsa a tracolla era già bottino di buone diapositive. Eh sì, il mio capo redattore sarebbe stato soddisfatto di avermi inviato sull'isola per il giro dei monasteri veneziani. Quel mattino, nel promontorio di Akrotiri, già avevo visitato Agìa Trìada e il convento-fortezza di Moni Gouvernéto. Sudore e scatti fotografici, impegno e soddisfazione mi erano tuttora vicini nel ricordo di un lavoro redditizio. Poi avevo dovuto fermare la mia Ford Focus nell'interrato alla sommità della penisola di Akrotiri. Non un fuscello di ombra in quell'arida terra e le cicale non si sentivano più.
Avevo raggiunto il culmine da cui, accanto al monumento a memoria dell'occupazione tedesca, si dipartiva la ripida mulattiera di lastroni sconnessi a qualche centinaio di metri sopra il livello del mare e ora ero appena uscito dalla fresca Grotta dell'Orso, un'oasi di pace tra tanta calura. Una stalattite dominava la caverna che divenne sede di culto cristiano come testimonia la cappelletta ortodossa ricavata nell'anfratto a ridosso della roccia. Ma non c'era nessuno, né uomo, né animale, né acqua, né un refolo ventoso. Mi sentivo stanco e assetato con la voglia di bere ben più di un sorso. Ma, salvo il materiale fotografico, non avevo portato rifornimenti per me, e sapevo di dover proseguire verso l'ultimo cimento: il Monastero Katholiko, un imponente complesso edificato in una gola, poi abbandonato in seguito alle continue incursioni saracene. Non avrei potuto mancarlo perché la redazione della mia rivista aveva già pensato di fare della sua chiesetta nella roccia la copertina del prossimo numero, considerate le caratteristiche uniche d'interesse sia architettonico, sia religioso. San Giovanni l'Eremita vi aveva trascorso la vita nella profonda grotta che accompagna l'opera dell'uomo. Sapevo che il monastero si cela allo sguardo sino all'ultimo gradino. Ma mi bastava resistere ancora un po' e l'avrei raggiunto.
Scesi gradini e gradini, difeso soltanto da un paio di occhiali da sole ché insieme all'acqua neppure a un cappellino avevo pensato. Mi si oscurava la vista e incominciavo a sentirmi girare come un boomerang, ma avevo pronta la mia Nikon a tracolla. Mi spogliai della maglietta umida di sudore e me la posi in testa come un turbante, alla faccia dell'estetica, tanto non c'era proprio nessuno. Soltanto sole e solitudine. I gradini proseguivano più impervi e sempre più assoltati. Era quasi l'una, al mio orologio. Anzi mezzogiorno, se si considera l'ora legale. Esaurita la saliva, Il mio sguardo prese di nuovo a dondolare, ero di sicuro disidratato, ma ormai la meta doveva essere vicina.
Difatti, a una curva secca della mulattiera verso sinistra, entrai nell'ombra e scorsi una lunga scalinata che portava a un'ardita passatoia in fondo alla gola, ai lati della quale erano stati costruiti imponenti edifici religiosi, disabitati e depressi. Lo stato di abbandono era evidente. Quel che restava della mirabile chiesa del monastero, unica nel suo genere, era, dalla parte dell'altare, ricavata nella roccia viva, a poca distanza dalla grotta di San Giovanni. Un portale sormontato da una bifora giallastra resisteva ai secoli come ingresso al termine della gradinata. Ora l'ombra mi dava qualche sollievo, raggiunsi la chiesetta e scattai le prime foto. Mi tolsi la maglietta dalla testa e cambiai obiettivo. Esaurii un primo rullino. Quel monastero meritava davvero un bel servizio fotografico. Feci poi per raggiungere i caseggiati, privi di serramenti, ma ricchi di finestre e porte spoglie, cornici di ambienti oscuri, allineati come una serie di bocche rettangolari nere, spalancate. Attorno alberi d'alto fusto e qualche ulivo assediavano il complesso.
Quand'ecco, con la schiena appoggiata a una parete di un piccolo edificio, sottostante la chiesa, una ragazza seduta con le gambe allungate sullo zoccolo d'ingresso fino a toccare con la punta dei piedi l'altra parete di quell'accesso spoglio. Portava in capo un foulard color del melograno e mi fissava senza parlare con due accattivanti occhi azzurri. Una giovane donna, poco più che ventenne, in bermuda e maglietta bianchi. Non aveva nulla con sé, né una borsa o uno zaino, né una bottiglia o una lattina per bere, mi accorsi che non portava neppure un orologio mentre ai piedi indossava un paio di sandali di cuoio.
Il suo sguardo era dolce e sereno. Mi avvicinai. Deposi a terra la mia borsa e mi sedetti accanto a lei, a torso nudo, senza dir parola. Ci guardammo senza rompere il silenzio. Mentre il mio viso era palesemente accaldato e il mio respiro appesantito, quello della ragazza era pallido e fresco, sornione e tranquillo. Quegli occhi celesti non cessavano di penetrarmi, senza il minimo imbarazzo.
Le chiesi in inglese come si chiamasse e di dove fosse. Mi rispose che sapeva parlare quattro lingue, ma non l'italiano. Si chiamava Sofia: sembrava un soffio di vento, ma significava filosofia. "Sei sola?" le chiesi. "Come mi vedi!" rispose. Quando le domandai perché si trovasse in quel posto, si limitò a rispondermi di essere stata sedotta da quel luogo senza confini, né padroni. Lei mi aveva già inquadrato: il mio materiale fotografico, il cavalletto le si erano già presentati per conto mio.
Un geco si mosse sopra le nostre teste. Lei mi indirizzò un sorriso e le sue labbra si aprirono in una bella mezza luna rosata. Ero riuscito a riprendermi almeno in parte da quella fatica, anche se la mia vista si manteneva ancora un po' appannata.
La visione di quella ragazza mi aveva ridato pace, impugnai di nuovo la mia Nikon, che in quel momento montava un 105 mm, e le chiesi se le potessi scattare un ritratto. "Uno solo!" mi disse in inglese "Per avere il mio ricordo, ti basterà una sola foto". Le chiesi di togliersi il foulard, dal quale, si scorgevano lunghi capelli dorati raccolti come una ninfea non ancora sbocciata. Non volle. La inquadrai al meglio, impostai un tempo alto e un diaframma aperto, le chiesi di inclinare il viso, di guardare verso il basso e scattai. Preso dalla bellezza di quel fotogramma, feci per scattare una seconda foto, ma lei aveva già aperto il palmo della mano a coprire il mio obiettivo: "Ti basta così, ci vuole temperanza!" sussurrò senza rimprovero. "La temperanza è una virtù... che forse io non possiedo" risposi. "La virtù è un pregio che non riguarda un corpo da fotografare, ma l'anima" rispose e aggiunse: "Ora vai a fotografare la grotta, altrimenti il tuo lavoro non sarà completo". Era vero, alla redazione interessava anche la grotta di San Giovanni l'Eremita. "Ogni santo ha un passato, ogni peccatore ha un futuro" le dissi.
Mi allontanai da lei di pochi passi e ne raggiunsi l'ingresso. Abbassai il tempo di scatto e ripresi alcune immagini di quell'anfratto storico. Non indugiai perché desideravo raggiungere la mia modella e proporle di far ritorno insieme. Dove avevo parcheggiato non c'erano altre vetture, avrei potuto accompagnarla a Chania o dove avesse voluto, avremmo potuto bere qualcosa e, per me, così com'ero messo, sarebbe stato un doppio piacere.
Ritornai alla porta vuota dove l'avevo incontrata, ma era scomparsa. Vi era rimasto il geco, immobile alla sommità dell'accesso. Mi guardai intorno, osservai gli scalini: nessuno li stava salendo, entrai nella casa e in quella di fronte e in altre ancora. Mi riportai alla chiesa. Era deserta. Mi sforzai di guardare tra gli alberi, ma anche laggiù non v'era segno di anima viva. La ragazza, in pochi minuti, era scomparsa, anche se mi pareva impossibile che in così poco tempo avesse potuto riguadagnare i numerosi gradini che portano alla svolta verso la mulattiera. Gli edifici del monastero erano imprigionati in una gola da cui non v'era altra via d'uscita. In lontananza, al termine della scarpata sottostante, l'azzurro del mare.
Percorsi più volte l'ampia passatoia ai lati della quale si stagliavano le case cieche e abbandonate. "Sofia, where are you?" gridai senza una risposta in cambio. "Please, come here... Be kind, Sofia!". Nessun cenno della sua presenza poteva ancora trattenermi laggiù. La scomparsa di quella ragazza dagli occhi azzurri era un mistero. Risalii lentamente i gradini e mi domandai: "Un mistero o un miraggio?". Forse le mie condizioni fisiche mi avevano alterato il cervello a tal punto di inventarmi un personaggio evanescente, una figura gradita che alleviasse le mie precarie condizioni visive? La stanchezza della mia marcia si era forse impadronita della mia volontà? Miraggi e misteri hanno affascinato l’uomo a tal punto da lasciare nelle nostre menti impressioni che stupiscono e incantano?
Ripresi il cammino, ora completamente in salita. Mi sentivo incalzato dalla belva della solitudine mentre l'aridità del mia bocca avrebbe bramato una botte di acqua fresca e il mio corpo una doccia ghiacciata. Ma, implacabile, il sole non cessava la sua tortura. Di nuovo mi posi la maglietta a mo' di turbante e ripresi quell'erta rovente. Molti minuti passarono sino a quando, quasi stremato, riuscii a sento a imboccare la serratura della mia Focus.
Entrai in quel forno crematorio e misi in moto. Giornata d'inferno! Ancora pochi minuti e sarei stato a Chania nella camera del mio albergo sul porto veneziano, proprio di fronte al faro della baia.
Raggiunsi il mio posteggio abituale, presi la mia borsa fotografica ed entrai nel mio albergo dalla parte del bar. Mi feci dare una bottiglia di acqua minerale naturale e la consumai in un battibaleno. Finalmente un po' di refrigerio. Ringraziai il barman e mi dissi. "Ora la doccia!".
Tenera è la notte, complice il giorno. Così quella notte, prima di dormire, ripensai alla mia avventura e a quell'incontro. Avevo visto davvero quella ragazza o era stato frutto della mia immaginazione offuscata dalla calura? Non lo avrei mai saputo, supposi. Avrei fatto bene a mettermi il cuore in pace e addormentarmi su lidi più concreti. Poi ebbi un sobbalzo. La mia Nikon, perbacco! Come non averci pensato prima. Le avevo scattato una foto. Il rullino avrebbe parlato. Si trattava dell'ultimo fotogramma immortalato. Sapevo che a Chania si trovava un ottimo laboratorio fotografico. L'indomani avrei consegnato il rullino e, quindi, avrei saputo. Sebbene, comunque un dilemma mi sarebbe rimasto tra mistero o miraggio.
Così feci. Consegnai il rullino di buon mattino. Entro sera avrei avuto il verdetto.
Passai il tempo a visitare il meraviglioso abitato di Chania, proteso su mare attorno al suo ampio porticciolo. L'antica capitale di Creta era un capolavoro di architettura veneziana ed era conservata al meglio per i turisti e per la salvaguardia artistica. L'ammirai in tutti i suoi aspetti, dai vicoli, alle mura, al porticciolo, al faro, ai numerosi ristoranti del lungomare, ma il mio pensiero in quella giornata era rivolto alla risoluzione del mio palpabile stato d'animo.
Finalmente, anche quel giorno, la sera arrivò. Alle 18 in punto mi feci trovare dinanzi al laboratorio, vi entrai e presentai lo scontrino. La mie diapositive erano pronte. Pagai ed uscii di fretta con quel contenitore di diapositive in mano. Raggiunsi la prima bitta del porticciolo e mi sedetti. Osservai contro luce, ad una ad una le diapositive, sino a soffermarmi sull'ultima, quella scattata a Sofia, la mia modella evanescente. Spalancai gli occhi e, con mio sommo stupore vidi l'immagine di un pope ortodosso nell'atto di baciare un'icona raffigurante una Madonna. Inspiegabile!
Passai il resto della settimana a chiedermi che cosa avesse visto la mia testa e fotografato la mia Nikon a Moni Katholico e a come giustificare il fatto che non si possono cambiare gli eventi. Ma nessuna risposta plausibile mi sovvenne, né ebbi la fortuna di rivedere Sofia o quel pope.
Ormai il mio servizio fotografico sui monasteri veneziani dell'isola di Creta era terminato.
Ritornavo in Italia con un discreto bottino di diapositive. Il mio capo redattore sarebbe stato di certo soddisfatto. Mentre il mio aereo decollava dall'Aeroporto di Akrotiri, mi divertii ad osservare l'Isola di Creta dall'alto: una catena di montagne immersa nel Mediterraneo.
Il lunedì successivo gli consegnai il tutto, compreso un elenco didascalico delle diapositive che avevo attentamente numerato con un pennarello a punta fine.
Nel pomeriggio fui chiamato in redazione. Il mio capo mi disse: "Complimenti, hai fatto un lavoro eccellente, ma ho cambiato idea: sulla copertina della rivista non ci andrà la foto della chiesetta nella roccia, ma quel bellissimo ritratto che hai scattato a quel sacerdote ortodosso, con la barba rigorosamente lunga e ribelle, nell'atto di baciare l'icona della Madonna".

Massimo Messa

 

 

 

 

 

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piazzascala.it - febbraio 2017