(N.d.R.: clicca sulle immagini per ingrandirle) - Il recente grave
incidente sulla tratta francese della funivia che, partendo da Courmayeur in
alta Val d’Aosta, conduce a Chamonix in Alta Savoia, attraversando i
ghiacciai del Monte Bianco, mi ha fatto ricordare una mia avventura sulla
stessa funivia di cinquantotto anni fa.
Settembre 1958. La Direzione della Succursale Comit di Piacenza, organizzò
la tradizionale gita annuale alla quale partecipò gran parte del personale e
qualche cliente della banca.
Il Direttore di allora, Giuliano Cianfarini, prediligeva la Svizzera come
meta ricorrente. Ma quell’anno accettò il suggerimento di alcuni di noi, un
po’ stufi di lingua tedesca, di pasti alla svizzera, di sguardi freddi
spesso torvi dei camerieri e degli impiegati degli alberghi (oggi non è più
così), di cambiare destinazione e pertanto fu deciso per la Val d’Aosta.
Io vi partecipai con mia moglie, sposini da un anno, impiegato Comit,
Reparto Estero/Merci, da sei anni. La prima tappa fu Aosta e un favoloso
ristorante sulle alture sopra alla città. Mangiata da scoppiare, con ogni
tipo di specialità valdostane, ovviamente con la Fontina, rifiutata con
disgusto da mia moglie, mai riconciliatasi, per tutta la sua vita, con i
formaggi.
La sera, albergo tre stelle a Courmayeur in camere doppie, in gran parte
senza bagno e cena frugale, ma ci fu chi protestò per la mancanza della
pastasciutta. Dissero: siamo tornati in Svizzera?
Secondo il programma, la mattina successiva, di buon’ora, imbarco di tutta
la comitiva presso la stazione della funivia per il Rifugio Torino, prima
stazione, a circa 3000 metri di quota, della nuova linea del Monte Bianco.
Qui i più anziani e qualche collega più pavido si fermarono, alla vista dei
vagoncini a quattro posti che partivano e arrivavano alla stazione. Io e mia
moglie ci imbarcammo entusiasti insieme a una coppia di clienti della banca.
Lui era discretamente equipaggiato mentre la moglie indossava una semplice
camicetta di seta e scarpe con tacchi a spillo. Per l’alta quota non le
serviva molto la maglietta di cotone che teneva sulle ginocchia. Mia moglie
ed io avevamo maglioni e giacche a vento, abbigliamento e scarponcini da
montagna.
La prima tratta, di alcuni chilometri sospesi sulle rocce innevate, ci portò
senza problemi fino alla Punta Helbronner, stazione intermedia già oltre il
confine francese, altitudine circa 3200 metri, poi il vagoncino riprese la
lenta marcia verso l’Aiguille du Midi, ma fu fermato a causa del vento forte
quattro o cinque volte. Il vagoncino oscillava a destra e a sinistra e noi
guardavamo in su, verso i cavi e le rotelle che davano l’impressione di
saltare fuori dalla loro sede. Era una sensazione paurosa, ma allo stesso
tempo, per noi giovani, abbastanza divertente. Non così per la signora che
era seduta di fronte a noi, ormai dal colorito verde, anche a causa del
freddo pungente.
Lo spettacolo della “Mer de Glace”, dei ghiacciai sotto di noi, sui quali si
vedevano i puntini neri di alcuni sciatori che li attraversavano, era
impressionante. Le imponenti vette innevate dei 4000 metri intimidivano e il
rullìo del nostro vagoncino non prometteva nulla di buono, ma l’esperienza,
almeno per noi giovani un po’ incoscienti, lo faceva dimenticare.
Arrivati dopo una buon’ora alla stazione francese dell’Aguille du Midi, ci
rifocillammo al bar e decidemmo di ritornare verso l’Italia, rinunciando a
scendere a Chamonix. Anche i nostri compagni di vagoncino, dopo aver
tergiversato non poco ed
essersi informati su un possibile ritorno a
Courmayeur in pullman, tornarono con noi, ma anche il viaggio di ritorno fu
altrettanto problematico per loro come divertente ed eccitante per noi.
Ritrovammo il resto della compagnia al Rifugio Torino e tutti insieme
riguadagnammo l’albergo di Courmayeur. Era stata una “gita della banca”
esaltante, almeno per noi che avevamo affrontato la traversata e anche il
Direttore Cianfarini, che vi aveva partecipato, lo riconobbe. Una gita
difficile da dimenticare.
L’anno successivo organizzai io stesso la gita annuale, nella mia qualità di
responsabile della Commissione interna, e riuscii a dirottare una seconda
volta la compagnia lontano dalla Svizzera, verso la Slovenia e la Croazia.
Nessuno di noi era comunista, ma qualcuno guardava con occhio meno critico
alle “realizzazioni socialiste” del regime di Tito, mentre altri trovavano
tutto disastroso. Ricordo che un collega disse di aver visto nei campi
alcuni trattori, subito contraddetto dall’avvocato della banca che in buon
dialetto rispose: “Me ho vist sultant a’di äs” (Io ho visto solo
degli asini).
Giacomo Morandi (Rivergaro)
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piazzascala.it - settembre 2016