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ratatouille

CAPITOLO SECONDO


“Professor Bonfiglio, ci lascia già? Ma ha ancora due giorni di soggiorno pagati” disse con fare amabile la ragazza addetta alla reception.
Era molto elegante nella sua divisa blu con giacca di fresco lana e bottoni dorati, la gonna plissettata svolazzante in tinta. Sotto una camicetta bianca sbottonata lasciava vedere quel tanto che bastava del suo piccolo seno.
“Non si è trovato bene con noi, Professore?” chiese con un sorriso di circostanza che suonò falso.
“Benissimo, ma ho gente che mi aspetta a casa.” Mentì.
“Piuttosto signorina (Rosa era il nome stampato sulla targhetta spillata alla sinistra della giacca)
avrei necessità di un auto a noleggio, possibilmente con autista... Ho la patente e so guidare, ma è tanto che manco dalla Sardegna e non conosco più le strade...E poi, sa, la vecchiaia...” lanciò la parola “vecchiaia” sicuro che la ragazza rispondesse con un complimento, sebbene di circostanza.
“Ah, certo, comprendo. Ad una certa età è meglio essere guidati che guidare...Lo dice anche mio padre che ha quasi ottanta anni...”
Il complimento che si aspettava non era arrivato; anzi, il fatto che lo avesse messo sullo stesso piano del padre ottantenne lo infastidì.
“Magari suo padre è incapace di guidare!” disse piuttosto seccato. “Io, invece, lo faccio per comodità!
Me lo posso permettere!”
Dopo circa quindici minuti che era salito nella propria stanza squillò il telefono. Era la reception. Ma la voce non era quella della signorina Rosa, bensì di un uomo.
“Professore? Sì, Professore qua è la reception dell’hotel. Le confermiamo la prenotazione dell’auto richiesta. Un Mercedes con autista...Autonoleggio Karalis...alle nove di domani mattina, qua davanti all’ingresso...Certo Professore abbiamo insistito per anticipare almeno alle otto, ma non c’era la disponibilità...Alle nove Professore, dopo la colazione...Sì, Professore, do la sua conferma...Buona notte, Professore”.
La notte la passò girandosi e rigirandosi nel letto agitato da sogni poco piacevoli.
Si era rivisto nella villa di “Portopozzo” popolata da gente sconosciuta.
C’era una infinità di persone, uomini, donne e bambini, mai visti, accampati nelle stanze della casa.
Aveva cercato di mandarli via, dicendo loro che quella era la sua casa, e loro non avevano titolo per occuparla. Ma non c’era stato verso di cacciarli. Aveva cercato allora l’aiuto dei genitori perché li cacciassero, ma i suoi genitori era come se non lo conoscessero. Aveva strillato e minacciato che avrebbe chiamato i carabinieri. Corse dunque al telefono, attaccato alla parete, ma era staccato.
Si sentiva impotente, oppresso, addirittura deriso da quella gente, sporca, cattiva, maleodorante.
Si svegliò di soprassalto in un bagno di sudore.
Guardò la sveglia: segnava le cinque.
Si alzò a fatica.
Andò in bagno.
Si lavò la faccia con l’acqua fresca.
Si guardò allo specchio e si vide ancora più vecchio di quello che era.
Urinò.
Poi, dopo essersi cambiato la canottiera completamente bagnata, si ricoricò senza più avere sonno.
Quel sogno lo aveva turbato.
Andrea credeva nei sogni: messaggeri premonitori che un mondo parallelo abitato dalle anime dei morti inviava ai vivi per avvertirli che qualcosa di poco piacevole stava per accadere loro. Fin da bambino aveva creduto al significato dei sogni.
Glielo aveva sentito dire dalla nonna, dalla sua mamma, e dalla zia Maria Rosaria che era una vera “maga” ( o “strega?”) nell’interpretare i sogni.
Ogniqualvolta la suddetta zia - una vecchina piccola di statura e tutta pelle ed ossa - faceva visita in villa aveva sempre qualche sciagura da raccontare.
E queste sciagure erano state sempre precedute dal sogno che avevano fatto Tizio e Caio, e che aveva loro anticipato sciagure e morte ai componenti delle rispettive famiglie.
Mai una volta che la zia avesse detto: “ Caio ha fatto un bel sogno e ha vinto un temo al Lotto”.
Lui, Andrea, assieme ai suoi cugini Ludovico, Luca, Massimiliano la chiamavano “Tzia Sciagura”.
La vecchina era ben conscia di quell’appellativo, ma non sapeva che appena aveva varcato la soglia di casa i bambini facevano tutti gli scongiuri contro la jella.
Alle sei abbandonò il letto per infilarsi subito sotto la doccia.
In bagno restò più del solito.
Poi mise in valigia gli indumenti usati (dopo averli riposti in un cellophane), le pantofole, il pigiama, il rasoio, e l’acqua di colonia. Per ultimo adagiò con cura il libro di Cristina: “Le meraviglie dell’Isola”. Fotografie di Cristina Atzei commento e storie inedite di Andrea Bonfìglio.
Alle sette e trenta fece colazione.
Era il primo e la sala era vuota.
Alle otto risalì in camera per vedere se avesse dimenticato qualcosa.
Alle nove meno qualche minuto era - trolley ben saldo in mano - davanti all’ingresso dell’hotel in attesa che arrivasse l’auto a noleggio.
Il Mercedes blu, vecchio tipo, posteggiò alle nove in punto davanti all’entrata dell’albergo. Ne discese un ragazzotto di poco più di venti anni, alto, scuro di capelli, occhi a mandola, carnagione chiara come il latte.
Indossava l’uniforme di ordinanza consistente in un completo elegante fumo di Londra, con cappello sulla cui visiera era stampata la scritta “Auto Karalis”.
Il ragazzo si chiamava Antonio il quale, dopo aver riposto con delicatezza il trolley del cliente nel vano bagagli dell’auto, s’infilò al posto di guida e avviò il motore.
Andrea si era sistemato a lato del guidatore.
In un primo momento aveva preso posto sui sedili di dietro.
Ma si era spostato immediatamente sedendosi accanto all’autista.
Stando dietro non si sarebbe sentito a suo agio nelle vesti di “cliente ricco e importante!”.
“Dove andiamo signore?”
“A “Portopozzo” per favore. E prendiamo la strada più lunga, quella costiera, non ho fretta!”

 

(fine seconda puntata - continua)

 

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