Erano
circa centottanta le anime che lavoravano nella miniera. Di queste in
maggior numero erano bambini dell’età di sette, otto anni chiamati “carusi”
"Picciotti
"erano quelli di undici, fino a quindici anni, ed erano circa ottanta. Poi
c’erano i
"pirriaturi”(o
picconieri) che erano uomini fatti.
Queste povere anime, trattati peggio degli animali, erano comandati dai
sorveglianti
(o
capumastri) ai quali era stato dato
il potere di vita e di morte di questi disgraziati. Glielo aveva dato -
quasi come una investitura - il proprietario della miniera.
Subito dopo il padrone veniva il sorvegliante, il quale con la cessione in “gabella” dello sfruttamento del giacimento aveva tutto l’interesse di ottenere il massimo dalla maestranza per avere il maggior guadagno possibile.
Lavoravano anche diciotto ore al giorno, scavando e camminando su e giù attraverso cunicoli fangosi sotto metri di terra, tra esalazioni di zolfo neanche fossero nelle viscere dell’Inferno.
Lavoravano immersi nel buio, a stento illuminati dalle deboli e imballanti fiamme delle lanterne ad olio.
Il caldo era opprimente, afoso, che si attaccava alla pelle come sanguisughe affamate.
Al rimbombare dei colpi di piccone che l’eco faceva rimbalzare, si udivano le bestemmie più terribili, di uomini nudi, stillanti sudore, dei "carusi" scheletriti che trascinavano a fatica ceste cariche di pietre, "picciotti” che a mani nude raccoglievano le zolle che i pirriaturi”avevano staccato dalle pareti.
Il tutto avveniva sotto gli occhi attenti del capomastro.
Erano occhi cattivi, specchio di un’anima diabolica che godeva nel vederli soffrire; e se la sofferenza di queste anime dipendeva dai suoi soprusi, ecco che il godimento era maggiore.
Fu una scintilla a provocare la fiammata e
successivamente lo scoppio nella “Zolfatara
di Malamuri "(conosciuta come
Mal(d)amore).
La parete cedette investendo tutti quelli che stavano ‘‘faticando ”nella galleria più bassa, quella che chiamavano “Inferno". La polvere, il buio, l’aria che si era fatta ancor più irrespirabile soffocarono in un attimo le grida disperate dei poveretti.
Venti furono i morti accertati, e quasi sessanta i feriti. Soprattutto i bambini rimasero sotto la roccia privi di vita.
Alfio era uno dei “picciotti" che di anni ne aveva quasi quattordici. Era, con la sua cesta carica di pietre appena risalito quando avvenne lo scoppio. Con lui c’era pure Rosario che aveva due anni in più di lui.
Al boato si guardarono negli occhi, e immediatamente realizzarono lo stesso pensiero: scappare!
Alfio era bruno di capelli, magro e ossuto come quei cani randagi che s’incontrano per strada abbandonati a sé stessi errare senza meta. L’amico Rosario, al contrario, era di corporatura robusta.
Aveva capelli folti ricci e rossi come quei tramonti d’estate. Sarebbe stato un ottimo personaggio di una novella del Verga o di un romanzo di Sciascia.
Era bello come un Dio! Ma quando scendeva in miniera, così nudo e coperto di polvere pareva una statua di gesso.
Era un tipo di poche parole. Quando facevano pausa per mangiare un tozzo di pane raffermo e formaggio, restava tutto il tempo a capo chino, gli occhi bassi e torvi.
I ragazzi della sua età lo temevano; ciononostante c’era sempre qualcuno che lo prendeva di mira canzonandolo per il colore dei suoi capelli.
Gli uomini della miniera al contrario, in quei momenti di pausa, cercavano la rissa, aizzandolo contro questo e quello provocandolo con “male parole".
Ma lui restava zitto e non rispondeva. Si limitava a fissarli con gli occhi piccoli e malvagi di faina.
Solo una volta reagì picchiando un “pirriaturi” che di tutti era il più prepotente.
Lo fece per difendere l’amico Alfio.
Accadde quando l’uomo grande e grosso come una montagna, chiamato "Vastasu”cercò - approfittando di un angolo buio nel ventre della miniera - di violentare il ragazzo.
Rosario lo picchiò con tale violenza che
l’uomo restò con le braccia spezzate a casa per diversi mesi, e più fece
ritorno alla miniera.
Rosario e Alfio, posate le ceste, presero a correre tenendosi per mano.
Rosario avanti trainava Alfio che dell’amico era più piccolo e debole.
Ventre a terra, controcorrente correvano attraversando la gente che
accorreva verso la zolfatara per dare aiuto a quei poveri figli."Currite,
currite!... "gridavano uomini e
donne riunitisi in gruppi sparpagliati accalcandosi all’ingresso della
miniera.
"Madri Santissima!...Il fuoco!...Currite...il fuoco!”
Correvano nudi i due ragazzi verso la campagna arida, pietrosa, buia,
lasciandosi alle spalle le case di Malamore dove, speravano, non
sarebbero più tornati.
Avevano i piedi sanguinanti, il fiato che gli si spezzava in gola, le
gambe pesanti. Eppure correvano con tutta la forza che avevano in corpo.
Attraversarono i campi appena seminati di Pasquale Ianni, e si buttarono
a pesce nelle acque tiepide e limacciose del torrente Ficuzza.
Alla prima casa di contrada Salina bussarono alla porta.
Passarono alcuni minuti prima che una voce da dietro il portone
chiedesse
“Cue
è?”
"Picciotti! "risposero in coro.
Furono rifocillati da gente perbene: madre vecchia e figlio muratore,
poveri ma dal cuore buono.
Pane e formaggio fu dato loro, e un bicchiere di vino.
Furono vestiti con quello che trovarono di decente. Rosario e Alfio non
potevano di certo proseguire nudi come vermi!
Alfio avrebbe proseguito per lo Stretto e da lì in treno fino a Milano
dove aveva parenti; Rosario, invece, avrebbe raggiunto Palermo per
imbarcarsi sul primo piroscafo diretto in America.
Fatta la conta dei morti e dei feriti, verificati i superstiti sul libro
paga, alla
“chiama
del capumastri” mancavano
soltanto i corpi di Alfio e Rosario.
Giù nella galleria non li avevano trovati. Era stata ripulita nel giro
di una settimana lavorando giorno e notte, ma dei due ragazzi neanche
l’unghia di un piede fu trovata!
Il proprietario accompagnato dal capomastro andò a casa di Alfio, per
prima cosa, e poi da quella di Rosario.
La madre del primo era - se possibile - assai più magra del figlio.
Era piccola di statura, aveva capelli neri e la carnagione bianca come
la calce.
Li accolse avvolgendosi nello scialle di lana nero, che copriva un
vestito color grigio topo, sporco di terra e unto di sugna.
Fece entrare i due uomini con diffidente rassegnazione nell’unica stanza
che faceva da soggiorno, cucina e camera da letto.
Una credenza di legno nera, un fornellino a gas nell’angolo in fondo
alla stanza, un grande letto matrimoniale disfatto e quattro sedie
attorno ad un tavolaccio traballante arredavano la casa dei Russo.
La donna, prima di prendere posto davanti al capomastro, disse subito
che il figlio dopo quella tragica notte non lo aveva più visto. Che se
lo avesse avuto fra le mani, posto che fosse ancora vivo, lei stessa lo
avrebbe trascinato in miniera perché le cinquecento lire che le erano
state date per il
“contratto a soccorso morto ”
non poteva restituirle. “Siamo alla fame!” disse a labbra strette
trattenendo i singhiozzi “Io e queste tre creature non abbiamo altro
dopo che mio marito morì in galleria...”
Poi stringendo le tre figlie al petto, prima di infilare lo sguardo per
terra e fissare un punto sotto il tavolaccio spoglio, aggiunse:
“Mio figlio portava a casa il pane...se è morto o se è fuggito non
sappiamo che fare!”
La casa dei genitori di Rosario era distante da quella dei Russo pochi
metri.
Quando bussarono alla porta furono il padre e la madre del ragazzo a
consegnarlo nelle mani del
“capomastro”.
“I carabinieri ce lo portarono questa mattina. L’hanno trovato al molo
di Palermo mentre cercava di imbarcarsi sopra un piroscafo diretto in
America...a
Nuova
Iorka voleva andare questo
mascalzone!”
Rosario aveva sedici anni quando fu ripreso e portato a lavorare alla
zolfatara; ma quando lasciò il paese la seconda volta di anni ne aveva
diciotto, e quella volta il piroscafo giusto per raggiungere l’America
lo prese per davvero!
Alfio quando giunse a Milano era ormai allo stremo delle forze.
Era più di una settimana che non mangiava, se non qualche pezzo di pane
strappato a questo e a quello. Beveva alle fontanelle delle stazioni
dove sostava per riprendere fiato, in attesa di salire su qualche
convoglio in direzione nord.
La notte si imboscava dove poteva per dormire qualche ora e per sfuggire
ai controlli.
1 suoi parenti abitavano distanti dalla Stazione Centrale.
Chiese più volte, in un italiano indecente, che strada doveva percorrere
per arrivare in via Sardegna.
Furono in pochi a rispondergli con gentilezza. Ci scappò anche qualche “Terìùn,
ma va a cà!”
Quando arrivò in piazza Piemonte una vecchietta gli disse che doveva
proseguire sempre dritto, che la via Sardegna era quella dritta davanti
a lui, larga ed alberata. Doveva attraversare piazza Sicilia, e
proseguire per ancora un duecento metri.
Superata via Trieste, la drogheria che faceva angolo, poi avanti alla
farmacia e la merceria, la macelleria e la panetteria col forno -
davanti al quale si fermò alcuni istanti per respirare a pieni polmoni
il buon profumo di pane caldo - raggiunse il palazzo col numero civico
trentasette.
Quando suonò al campanello della prima abitazione che si trovava sulla
destra delle scale, appena superata la guardiola della portineria gli
aprì una donna dalle forme rotonde.
“Chi sei?” domandò guardando chi gli stava di fronte con sospetto.
“Alfio mi chiamo...Alfio Russo e vengo da Malamore!”
“Madonna mia!...Ma come sei conciato e come puzzi!”
Poi spalancando la porta e facendosi da parte per fare entrare il
ragazzo aggiunse.
“Trasite!”
Rosario lavorava ancora in miniera quando fu avvicinato da un uomo.
Doveva fare un favore a un amico gli si disse.
Un amico che si era rivolto a lui perché a sua volta incaricasse
“persona di poche parole e di fiducia ”
E l’uomo dalla apparente età di cinquanta anni, rubicondo e assai in
carne a Rosario pensò, ma non pescando nel mucchio a caso, ma perché di
lui si fece il nome.
Così fermò il ragazzo all’uscita del bar della piazza di Malamore una
domenica sera.
L’uomo era
“uomo
d’onore”.Uno di quelli che
quando passava per strada la gente si scopriva il capo dicendo: “Baciamo
le mani!”
Per la miniera non si doveva preoccupare, gli disse, perché avrebbe
parlato lui stesso al capomastro perché gli fosse concesso un permesso
di un paio di giorni.
“A Palermo devi andare. Là incontrerai due picciotti come te, e loro ti
diranno che
hai a
che farei.”
Rosario ascoltò e non fece domande.
Si limitò a fissare negli occhi quell’uomo corpulento dalla pancia che
gli faceva scoppiare la camicia bianca infilata in pantaloni di velluto
nero a coste, stretti da una cintura di cuoio.
Da Palermo Rosario non fece ritorno perché dopo che ebbe eseguito quello
che gli era stato ordinato di fare, fu imbarcato sul primo piroscafo
diretto in America.
Gli si disse che il posto ponte gli era stato pagato da quella stessa
persona alla quale aveva fatto il favore, e di cui doveva scordarsi nome
e cognome.
“Per te mai è esistita!”
Poi gli misero in mano cinquecento lire.
“Per mangiare... fattele
abbastare!” aggiunsero mentre
gli consegnarono una piccola valigia di cartone legata con un filo di
spago.
Il ragazzo salutò e prese a salire la passerella che lo avrebbe condotto
a bordo della nave.
Giunto a metà della passerella un ultimo refolo di vento carico di
profumi della sua Sicilia gli scompigliò i capelli ricci rossi, come per
dirgli “addio!”
Rosario non si voltò indietro temendo che qualcuno o qualcosa lo
fermasse.
Trattenne il fiato fino a quando i suoi piedi calpestarono il ponte “C”.
(continua)
piazzascala.it - febbraio 2016