CAPITOLO TREDICESIMO   
 

Carmine seppe ben presto che lavoro faceva il padre.
Non era stupido il ragazzo, e che il genitore facesse parte della “famiglia ” già lo sospettava da tempo.
In un primo momento che il padre facesse parte di un giro di mafiosi italo-siciliani non gli fece né caldo né freddo, anzi, si sentì orgoglioso di lui quando alcuni anni fa - lui di anni ne aveva sette - fu presente al giuramento di fedeltà.
C’era anche Joe Pesci.
Alla mamma un giorno chiese se il padre avesse mai ammazzato un uomo. Lei gli rispose senza un attimo di esitazione che per quanto potesse sapere il marito non si era mai macchiato le mani di sangue. “Tuo padre e un brav’uomo. Fa quello che deve fare e che la ‘ famiglia ”gli chiede di fare per dare da mangiare a noi. Non fa male a nessuno. Non uccide. Ritira dalla gente, dai commercianti della zona quello che è stato stabilito di comune accordo per la protezione... C’è gente malvagia in giro di questi tempi, che ruba, che incendia i negozi, che rapina gli incassi di una giornata di lavoro... La povera gente chiede protezione, quella che la polizia non assicura loro.
Tuo padre con i suoi compari vigila...
La polizia incassa pure lei il pizzo, ma non fa nulla contro chi ruba.... Tuo padre invece con gli amici li fa vivere tranquilli... A chi fa loro del male li punisce...
Ma tuo padre non uccide.”
Così rispose Assunta alla domanda del figlio nascondendogli - perché lei preferiva non vedere né sentire - che assieme alla riscossione del pizzo il marito spacciava per conto di Joe Pesci droga, e che con lui era nel giro della prostituzione, e nelle scommesse clandestine. Carmine tutto ciò lo venne a sapere da un giovane agente di polizia quando fu portato al commissariato di zona per guida in stato di ebbrezza dopo una sbornia presa con altri compagni di palestra.
C’è il detto che i genitori non si scelgono, ma vengono imposti. E lui, Carmine, non voleva assomigliare al padre anche se fisicamente - se messi davanti ad uno specchio uno vicino all’altro - parevano simili come due gocce d’acqua.
Non era sua intenzione seguire le orme del padre anche se i guadagni erano facili.
Voleva fare il pugile. La passione gli era entrata nel sangue il giorno che aveva steso il compagno di scuola figlio del macellaio.
A quattordici anni compiuti aveva messo piede in una palestra. Era stato indirizzato da un suo amico del Bronx senza dire nulla ai genitori.
Aveva fatto un provino e aveva superato l’esame.
Così tre volte alla settimana, la mattina verso le dieci, marinava la scuola per andare ad allenarsi.
La palestra era di proprietà di un ebreo-polacco ed era frequentata soprattutto da neri e portoricani.
Carmine era il primo italo-americano che ci metteva piede e l’accoglienza che ricevette fin dal primo giorno fu di scherno e derisione.
Ma appena fu messo alla prova fece ricredere i suoi detrattori mettendo al tappeto al primo round un bulletto cubano.
Il trentuno di ottobre quando Fiore festeggiava l’assunzione in banca, Carmine compiva diciannove anni.



(continua)

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piazzascala.it - maggio 2017