CAPITOLO PRIMO   

 

Erano giunti a Milano Linate che era da poco passata la mezza. Avevano bagagli a mano e quindi non avevano dovuto fare la fila per recuperarli al nastro.

C’era poca gente sul volo e quei pochi si sparpagliarono in fretta mischiandosi tra quelli che erano in attesa.

Era andato loro incontro l’amico Massimo come sempre puntuale. Anche quattro anni prima, alla fine di giugno, li andò a prendere alla Stazione Centrale.

Quella volta fu per la zia Maria.

“La zia è stata ricoverata in ospedale e vuole vederti” disse lo zio Saverio al telefono al nipote.

“Ma è grave?... Cosa le è successo?...”

“Pare sia il cuore... L’ho trovata così, distesa per terra, in cucina tra le borse della spesa e tutte le cose sparpagliate...”

“Ma il medico cosa dice?”

“Non si è ancora pronunciato”
Un’ora e mezzo tanto dura il volo da Cagliari.
Con la moglie Carla non parlarono molto. Lei ancor prima del decollo prese a sfogliare - bagnandosi l’indice e il medio della mano destra - un giornale illustrato acquistato all’aeroporto di Elmas.
Fiore allora tornò indietro nel tempo, ricordando quando gli zii - diventato orfano dei genitori - lo presero con loro.
Gli zii Caruso, Saverio e Maria, non avevano avuto figli, e mai si chiese il perché. Solo una volta - avrà avuto otto anni - rivolse questa domanda alla zia la quale, arrossendo, rispose semplicemente: “Non sono venuti!” Quando Fiore era malato - e ciò gli capitava spesso nei mesi invernali - lo zio Saverio alla sera quando si sedeva accanto al suo letto, gli raccontava le storie della “sua” Sicilia, di quella del padre Alfio, che "caruso ”era scampato da morte certa quando avvenne lo scoppio nella zolfatara di Mal(d)amore.
Z
io, ma perché la miniera la chiamavano Mal(d)amore quando il nome del paese è Malamore?”
“Te lo dirò quando sarai più grande e potrai capire...” fu la sua risposta.
Il perché di quella lettera “d” fra le lettere “l” e “a” gli fu spiegato quando ebbe compiuto quindici anni. Stava andando con lo zio allo studio del cugino Franco Caruso che aveva il titolo di Barone ed era architetto nonché proprietario di diversi immobili nel Centro di Milano.
Ricorda che erano sul tram che da piazza Piemonte porta in via Orefici, vicino a piazza Duomo.
“La miniera ha lo stesso nome del paese Malamore, ma per dispregio di chi ci lavorava qualcuno prese a chiamarla Maldamore.
Chi ci lavorava erano solo uomini, in condizioni disperate, diciotto ore al giorno chiusi nelle gallerie, che altro non erano che lunghi cunicoli bui, l’aria pregna di polvere di zolfo, irrespirabile.
Il caldo era soffocante, e per questa ragione carusi, picciotti, pirriaturi lavoravano a torso nudo, coperti solo di stracci; ma c’era anche chi era completamente nudo.
Lavoravano come bestie e come bestie erano trattati. Ogni giorno per diciotto ore per sei giorni la settimana. Solo la domenica potevano fare ritorno a casa.Pertanto durante la loro permanenza in miniera, illuminati dalla fiamma di lanterne ad olio, dormivano in promiscuità. E accadeva purtroppo che gli uomini grandi si approfittassero dei più piccini, perché indifesi e ignari di ciò che stava loro capitando.
L’ignoranza fa fare anche queste cose.
Maldamore chiamarono la miniera. Intendendo il male d’amore che ti prende quando amare una persona che ti ha con la forza ti fa stare male.
E questi uomini che si approfittavano dei più piccini amavano il loro corpicino solo per il proprio piacere...per loro erano come cose...” “Ma allora anche papà...” e non osò aggiungere altro pensando al padre che da quell’inferno era fuggito.
No, Alfio non ha mai subito violenza. Non glielo ha permesso “a nessuno” l’amico Rosario. Lui lo ha sempre difeso.”

(continua)

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piazzascala.it - marzo 2016