JUSTUM EST BELLUM QUIBUS
NECESSARIUM
(Tito Livio)
Ben
pochi hanno il coraggio di parlare in pubblico ed in genere chi
l’ha è quello che lavora poco a conferma di un adagio andante:
Largo di bocca, lento di mano’.
Lui parlava poco eppure aveva chiara nella sua mente fervida di
immaginazione la proiezione di un futuro popolaristico da
definirsi quasi comunistizzante, inteso non tanto nel senso
ideologico di tipo marxista, quanto in senso di una
partecipazione popolare, più che popolare di tutti quelli che
condividevano il peso di un lavoro, di una produzione, di una
realizzazione. Si, lui rimaneva cristiano, anzi si ricordava
perfino l’inizio di una enciclica che cominciava ‘Ut unum sint’
che voleva dire di essere uniti, di fare ogni cosa assieme, come
una famiglia. Era cioè una nuova concezione, una nuova
impostazione di governo. E diceva governo, non nel senso pieno,
nazionale, ma governo come direzione di azienda, come
corresponsabilità di produzione, come potere ai lavoratori. Una
percezione un po’ vaga dunque, incerta, come l’ha la gran parte
della gente che fa, vota, impreca più per tradizione che per
convinzione, desiderosa di un meglio perpetuo e che considera la
critica come diritto personale.
Sognava questo certo tipo di rivoluzione.
Non cruenta, non ce n’era la necessità. In fondo la gente era
tutta brava gente, con qualcuno un po’ fissato di essere più
bravo degli altri, il quale pertanto confermava la regola della
normalità, ma una rivoluzione reale e pratica in questo settore
ebraistizzante della vita pubblica, e perciò di tutti.
Se le chiamavano Aziende di Credito, tali dovevano essere e,
poiché per la gestione delle aziende, pur genericamente
considerate, non aveva sottomano modelli d’oltrecortina, si
rifece a
quelle americane, moderne, reazionali, collaudate con successo,
di cui non mancavano relazioni ed esemplificazioni.
Primo era di rompere il monopolio delle Sedi Centrali che
ammassavano un certo numero di papaveri con stipendi favolosi, a
suo giudizio, e liquidazioni astronomiche. Di conseguenza era
utile un decentramento amministrativo, devoluto responsabilmente
ad ogni Filiale, secondo la legge del proprio valore o creando
delle ‘Sedi tipo’. Cioè se l’intera azienda valeva trenta
miliardi in immobili e materiale la si poteva dividere tra tutte
le Filiali componenti in stretta proporzione. Ne veniva così che
una filiale tipo con 50 impiegati poteva valere magari 250/300
milioni, vale a dire che ogni dipendente concorreva con cinque o
sei milioni. Forse era una strana matematica, ma lui sentiva il
bisogno di dire ‘è la nostra azienda’, io sono una parte di
essa, un comproprietario, un attore di questa lavorazione. E non
lo pensava per un guadagno venale, ma per una soddisfazione
morale, per un diritto di compartecipazione nella gestione come
molte fabbriche americane.
Già, ma lui non li aveva mica cinque o sei milioni da versare in
quota ed essere comproprietario!!
No, ma la sua vita nell’Istituto li valeva cioè la sua
liquidazione ipotecata nel futuro che avrebbe vissuto! Che gli
importava una liquidazione quando avrebbe avuto una pensione più
che sufficiente a tempo debito? Quella mensilità annua che gli
spettava per legge sarebbe stata tramutata in azioni
dell’Istituto tolte nauralmente a quelli che ne facevano un
commercio o una speculazione, divise però in parti eguali per
tutti, divenendo così un patrimonio dei lavoratori, dei
produttori, di chi l’azienda la faceva funzionare, rendere,
vivere. Quando essi lasciavano l'Istituto, altri giovani
sarebbero subentrati a riscattare le sue azioni divenute, per
legge o per Statuto, non più un suo diritto di proprietà.
Il concetto era quello, i dettagli oppure la realizzazione che
in fondo era intimamente cristiana, si potevano studiare. Invece
della quota di liquidazione poteva anche essere una quota fissa
annua, non importava proprio il modo o la forma, facilmente
risolvibile, quanto invece il fatto che rimaneva una realtà di
fondo, una eguaglianza di diritti e di doveri una possibilità di
vivere questa unica vita con una buona paga da giovane, quando
la si poteva godere invece d’attendere quarant’anni per prendere
parecchio, quando si rendeva meno e si guardava con nostalgia ad
un passato perduto, perduto per sempre.
L’Azienda, passata ai dipendenti, diventava allora una famiglia
che, pur inquadrata e federata con le consorelle, aveva una sua
vita propria, in cui ciascuno aveva la sua mansione da compiere,
o meglio la sua parte di lavoro responsabile. In fondo, a
pensarci bene, ognuno in coscienza sapeva di poter fare assai
più di quanto faceva ma, in genere, faceva assai meno di quanto
credeva di fare o diceva di fare.
I Gradi erano assegnati dalla comunità, i cui membri si
conoscevano molto bene, secondo una valutazione obiettiva delle
capacità dell’individuo ed un sereno riconoscimento dei meriti
di un collega. Il voto era un voto di eguale valore per tutti,
indipendentemente dal grado o dalla mansione, poiché
rappresentava una quota del grande organismo, una persona, una
mente, una volontà.
Tutti i grandi, dovevano avere una sanzione comunitaria, anche
la Direzione.
In questo modo, come in un gioco di poker, nessuno poteva avere
un potere assoluto che poteva diventare dispotico, arbitrario o
nepotistico, ma era solo un riconoscimento collettivo e
temporaneo delle capacità, del prestigio, deU’antiegocentrismo,
della notorietà della persona presso il mondo della clientela.
Se in un domani si dimostrava fesso, lo si poteva sostituire con
voto assembleare.
La gestione era comunitaria dunque: ogni Ufficio eleggeva il suo
rappresentante ed il consiglio di questi savi discuteva insieme
la azione di propaganda, di investimento, di commercio del
denaro, facilitati in questo dalla conoscenza della popolazione
nella quale erano nati e vissuti e di cui conoscevano
direttamente o indirettamente, vita, miracoli, serietà ed
onestà.
L’utile formava la base di un oculato rinnovamento di impianti,
sopratutto di macchine da scrivere che erano quasi tutte dei
veri ruderi in decomposizione, e poi per formare la solita
riserva ed infine per assegnare egualitari stipendi. Si pensava
all’utile perchè era incredibile un lavoro in perdita in quanto
era un puro e semplice commercio e se i bilanci erano largamente
attivi ora che ci mangiavano in diecimila, lo sarebbero stati
ancor più quando le spese ‘inutili’ sarebbero state assai
alleggerite. In fondo, col concorso interessato di tutti si
sarebbe attuata quella economia pianificata che ora era soltanto
piano senza economia.
Si poteva riconoscere un premio alla anzianità, alla
responsabilità di servizio a cui però tutti a turno erano
chiamati, e che veniva stabilita di comune accordo perchè tutti
lavoravano, tutti erano compadroni, tutti rendevano, ciascuno
nel proprio campo e nella propria capacità, ma egualmente come
gli altri.
Le assunzioni non erano per amicizia ma i voti stessi di scuola
aprivano ai più meritevoli la strada del lavoro.
Le ferie poi erano eguali per tutti, un mese per ciascuno, e
durante i tre mesi di maggior sfruttamento delle possibilità
solari, rarefacendosi in quei tre mesi i lavoratori, venivano
allora assunti avventizi fra gli studenti sia di ragioneria che
di università, che in tal modo potevano guadagnarsi gli studi o
la utilitaria e nello stesso tempo essere già preparati per una
eventuale assunzione futura.
Lo straordinario non sarebbe più stato necessario o meglio, se
un ufficio era in difficoltà avrebbe trovato tutti gli altri
pronti a collaborare per il bene comune e per contro ciascuno
doveva necessariamente conoscere tutti i servizi, essere
intercambiabile, compreso il servizio di cassa, in modo da
abolire il ‘ruolo’ di cassiere a vita, il più dannato della vii
razza bancaria, il relegato a vita in un lavoro da nevrastenici
con la preclusione di ogni altra soddisfazione.
Non più centri contabili, resi inutili dalla gestione locale,
completa in ogni suo particolare, con un risparmio enorme di
macchine e di uomini, di tempo e di complicazioni, e con la
creazione di macchine più semplici, più adatte, proporzionate
all’entità del lavoro, che la tecnica moderna non avrebbe avuto
alcuna difficoltà a progettare e a realizzare.
Non più grandi sedi farraginose, rifugio dei nati stanchi, le
quali venivano smembrate trasformando le Agenzie in Filiali
robuste, autonome, organizzate e di facile manovrabilità.
Bastava un Ufficio Centrale di coordinamento per avere moduli
uguali per tutti, un Fondo cui pervenissero tutte le eccedenze
dei depositi e che servisse per i grandi impieghi finanziari o
di compensazione per le filiali depresse, un Ufficio legale per
l’aggiornamento costante delle leggi ed a cui venivano devolute
le inadempienze dei debitori, sotto responsabilità del Consiglio
aziendale che aveva localmente autorizzato il credito.
C’era un altro risparmio: ciascuno avrebbe usato il necessario
senza sciupare nulla, nè un foglio nè un modulo, nè il tempo, nè
le inutili recriminazioni contro l’anonimo Centro, nè le usuali
parole di stanchezza e di autocommiserazione. Ciascuno avrebbe
fatto propaganda in qualunque momento della vita perchè era
parte direttamente interessata.
Tutte queste cose finalmente disse, tutte d’un fiato, con
animazione e convinzione estrema, con fiducia nell’avvenire suo
e dei suoi figli e delle generazioni future dei bancari che,
tolti dalla schiavitù del progresso, sarebbero passati da numeri
a uomini, da strumenti ad artefici.
L’assemblea dei lavoratori approvò a gran voce, perchè in tutti
era la convinzione che si marciava, senza intendimento di
partito, verso una forma socialistica della vita e reclamò che i
rappresentanti ne portassero relazione in seno al Comitato
Centrale per una azione sindacale, ecumenica, per il chiaro
studio delle idee e la loro diffusione in modo da giungere non
solo a delle proposte ma a delle soluzioni concrete, rapide ed
efficienti.
Ci fu naturalmente chi scrisse sia al sindacato, da una parte,
sia al Gran Capo dall’altra, per ragguagliarlo sulla azione
sovvertitrice in atto.
Era pericoloso rompere l’armonia della corruzione, dare esca a
pensieri che potevano distrarre dal lavoro e porre prospettive
diverse da quelle studiate appositamente per tacitare con
quattro soldi le velleità avvenire.
La base invece si eccitava, parlava di sciopero ad oltranza,
considerava « giusta la guerra per coloro per i quali era
necessaria ».
Non erano ancora trascorsi otto giorni che le reazioni
tremolarono nel sottosuolo.
Faceva meraviglia che quell’impiegato insignificante, quel-
l’escluso, osasse avere parole di rivoluzione, di sfida, di
sovvertimento, si dichiarasse scontento, disconoscesse meriti e
valori dei gradi superiori.
Quando aprì quella personale lettera che portava sul retro la
ben nota iscrizione della temuta Sede Centrale, l’ometto lesse
una singolare lettera, relativamente breve, che diceva press’a
poco così:
« Egregio signor... la sua presenza è assolutamente
indispensabile nella nostra Filiale di... veda di presentarsi
con la presente per il mattino del... »
Lacrimoni gli scesero copiosi, mirando la foto della moglie e
dei figli che avrebbe dovuto lasciare, mentre il rappresentante
sindacale glieli asciugava.
« Voi suonate le vostre trombe, noi suoneremo le nostre campane!
Faremo opposizione, non temere, avvisiamo subito il
Sindacato Centrale! »
Disse e fece.
« Voi suonate le vostre trombe, noi suoneremo le nostre campane!
Faremo opposizione, non temere, avvisiamo subito il Sindacato
Centrale! »
Disse e fece.
La cosa minacciava di farsi più grossa di quanto non fosse
prevista: forse era passata l’epoca del governo borbonico, ma
pareva che qualcuno lo ignorasse ancora.
Passarono solo due giorni, poi il Direttore locale chiamò
l’impiegato nel suo Ufficio per spiegargli meglio il significato
della lettera emarginata.
« Ma come l’aveva inteso, cosa aveva capito? Forse che lo
volessero punire? E per che cosa, non c’era forse la libertà di
pensiero ed anche... di parola? Ma non vedeva invece in quanta
considerazione era presso l’Alta Direzione che lo riteneva forse
contento di far carriera andando a... per un pieno servizio!! »
Se però non se la sentiva, niente di male, con la prossima
settimana sarebbe magari salito in Segreteria e strettamente
aiutato (e controllato) « avrebbe iniziato a salire la china —
non lieve creda — della carriera bancaria... »
E così fu.
In segreteria si trovò bene, dimenticò ogni sua fisima. In un
modo o nell’altro erano riusciti a neutralizzarlo.
Virginio Inzaghi
Tale è la natura dell’uomo che l'uomo crede
dell’uomo più facilmente il male che il bene.
Il biasimo sembra spregiudicato la lode invece passa per
adulatoria.
(Aldo Ferrabino)
I bancari vil razza dannata:
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