LA MEDAGLIA D’ORO
 

Sapeva che era arrivata. Glielo aveva detto uno della Segreteria che era presente quando il Direttore l’aveva mostrata al novello Funzionario, prospettandogli la vita che ancora doveva trascorrere nell’Istituto, prima di riporla nella piccola cassaforte in dotazione alla Direzione.
Si immaginava già la scena, piuttosto consueta quando vi era qualche promozione o qualche ricorrenza speciale, con il tavolone pieno di salatini e di aperitivi e tutti i commessi, impiegati e funzionari che parlavano di tutto fuorché della Banca e del festeggiato.
Poi il richiamo d’attenzione che precedeva le commosse parole di uno della Direzione che gli dava il saluto verso la pensione ed esaltava i suoi anni di lodato servizio.
Non era gran che, ma era comunque piacevole essere una volta tanto alla ribalta della vita della Filiale; essere al centro dell’attenzione senza la mortificazione di un pubblico rimbrotto, come molto spesso accadeva per gli inevitabili contrattempi della vita in comune.
Quarant’anni! !
Non era entrato proprio giovanissimo, quando cioè quindicenne aveva abbandonato la scuola per incompatibilità con gli insegnanti e le materie scolastiche per dedicarsi a fare il garzone di lattoniere e simili, professione che avrebbe poi rimpianto moltissime volte come assai più redditizia ed ancor più ricercata del suo posto bancario. Quando un rubinetto od un termosifone perdevano anche se erano Direttori allora dovevano dipendere da lui. Ora non più.
Aveva già vent’anni quando sua madre, intraprendente domestica ad ore presso l’allora Direttore della Filiale, era riuscita
a farlo assumere.
Era stata poi una camera nemmeno troppo lenta: commesso di III categoria, poi di Seconda, poi di Prima, fin tanto insomma che resistette il Direttore e la madre fu insostituibile, anche se piuttosto invadente per carattere ereditario.
La nomina a Capo-commesso era venuta dopo, per anzianità, quando in Filiale era rimasto il più vecchio ed una nidiata di vispi giovinetti erano stati affidati alle sue paterne cure, per forgiarne degli esemplari commessi.
Anche lui in mezzo a tanti giovani era ridiventato giovane ed amava salutarli al mattino entrando con un sonoro ‘Salve ragazzi’, per il quale lo prendevano un po’ in giro ma che egli, benignamente, tollerava come segno di affabilità.
Qualcuno aveva proposto di rispondergli con un unisono ‘Salve sceriffo’ ma l’idea, dopo la prima volta, era stata accantonata perchè lui aveva mostrato di non gradirla molto, dimenticandosi perfino quella volta, di segnar loro lo straordinario per cui durò fatica assai, il mese dopo, riscontrata, ed ancor più, fatta riscontrare l’omissione, a farla includere nel nuovo prospetto mensile.
Ciò non toglieva che ai ragazzi piacesse scherzare e questo sollevava lo spirito ed il cuore, purché lo si lasciasse stare, anche se molto spesso più che scherzi erano contestazioni vere e proprie, erano litigi per vedere di fare a gara a chi riuscisse a fare il meno possibile, oppure a segnare ore straordinarie perchè per principio, l’importante non era tanto a farle quelle ore, quanto a segnarle.
Un’altra volta, in un periodo di particolare pressione lavorativa, li aveva paragonati ai combattenti della prima guerra mondiale, agli eroi della trincea, dei camminamenti, delle lunghe marce.
« Erano eroi, ragazzi miei, che non badavano al sacrificio, che avevano per motto: marciare in silenzio nel fango... »
Quest’ultima frase era rimasta come slogan di incitamento al lavoro nei momenti difficili ed intensi. Se v’erano discussioni per il lavoro si udiva la voce calma e suadente che memorava: « marciate in silenzio nel fango!! »
Naturalmente essi l’avevano subito leggermente modificato in « marcire in silenzio nel tango », il quale ‘tango’ nelle zone della bassa Lombardia non vuole significare il ballo di origine argentina, bensì qualcos’altro di molle e odoroso...
Ora era giunto il momento fatale: voleva quasi chiedergli quando fosse, se avesse potuto offrire come di consueto per la cerimonia, i succitati salatini. Si trattenne. In fondo era un capo con tutte le attribuzioni relative e la discrezione lo fermò: appena loro glielo avessero detto, era un attimo il provvedere.
Ma il tempo passava e nulla appariva all’orizzonte: di fil di fumo c’era solo quello della pipa del Vice che, al pomeriggio, lavorava solitario tirando grandi boccate.
Un giorno gli avevano chiesto se voleva fermarsi ancora un anno dopo la data pensionabile ma lui aveva riguardosamente risposto che si sentiva stanco e preferiva la libertà.
Poi gli arrivò dalla Sede Centrale la comunicazione ufficiale della data di cessazione del servizio e l’encomio solenne. Il capocommesso, commosso, proseguì attesoso nell’usato lavoro che si avviava all’inevitabile termine.
Un pomeriggio, anzi quasi una sera poiché era quasi l’ora di uscire, transitando per il corridoio della Direzione s’incrociò col signor Direttore che stava allacciandosi il soprabito per uscire.
« Oh; è lei? Attenda un momento! »
Il sole entrava obliquo dalle finestre a vetri colorati nel grande corridoio, deserto in quell’ora, e ne traeva riflessi purpurei dalla tappezzeria a riquadri.
Dopo qualche attimo di lunga attesa, riapparve il Direttore.
« Tenga — disse — quasi me ne dimenticavo! »
E, ficcandogli in mano l’astuccio della così attesa, meritata, sudata tutta una vita, medaglia d’oro, se ne andò per i fatti suoi.
 

Virginio Inzaghi


 

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