Situazione economico-sociale nell'Ottocento
 


 

Un paese essenzialmente di contadini dediti aIla viticoltura per l’abbondanza di vigneti che territorio offriva, ma che non li rendeva certo ricchi, tanto da far dire con rassegnazione: “Paés dé vì, paés dé poarì” (paese di vino, paese di poveri). In quel detto c’è tutta la storia di Cellatica, intrisa di sacrifìci e di impegno spesi nella lavorazione della vite, prima che l’espansione industriale degli anni Cinquanta e Sessanta assorbisse quella manodopera in altre attività. Fino ad allora l’economia del paese era essenzialmente povera, ogni imprevisto come malattie, avversità atmosferiche, o altro, comportava gravi disagi alla famiglia già provata per sopravvivere.
I più lavoravano le terre in qualità di braccianti o mezzadri per conto dei pochi possidenti, abitanti in città, proprietari di circa il 90% del territorio.
II bracciante era un lavoratore pagato, nella seconda metà dell’Ottocento, circa 80 centesimi di lire a giornata in estate e 50 in inverno. Aveva inoltre diritto a piccole quantità di prodotti quali vino, fagioli, legna, mais, erba per gli animali da cortile e poco altro. Il mezzadro invece ripartiva con il possidente il raccolto dei terreni a lui affidati in misura variabile tra i 2/3 o i 2/5.
Il reddito annuale era tuttavia sempre soggetto a variabili, perciò il 10 novembre quando si chiudevano i conti con il padrone, a molti contadini restava un passivo che si sarebbe trascinato fino all’anno seguente e destinato a lievitare. Poteva capitare di dover cambiare padrone e, in genere, i traslochi si facevano il giorno di San Martino ( 11 novembre). A volte, ma non era certo la regola, qualche proprietario comprensivo, terminati i conti, sul registro di cassa tracciava una riga trasversale sulle colonne del dare e dell’avere: un segno pietoso e liberatorio per i capifamiglia che si vedevano sollevati dal debito e potevano così affrontare più serenamente il nuovo anno di lavoro.
La vita della gente di Cellatica era quindi condizionata da un’economia di sussistenza, sufficiente a mala pena a garantirne la sopravvivenza, ma assolutamente inadeguata a fronteggiare situazioni di emergenza che potevano essere un raccolto distrutto dalla tempesta, una malattia o un infortunio che avrebbe impedito il regolare svolgimento del lavoro, la nascita continua di figli che, da adulti, sarebbero stati d’aiuto ma che pur bisognava sfamare per crescerli.
Per il lavoratore agricolo il bisogno di affidamento alla Provvidenza era fondamentale nella faticosa quotidianità in cui si dibatteva, sempre in balìa di imprevisti meteorologici e di incertezze esistenziali, quindi quelle processioni, di cui esiste ancora viva memoria nelle persone anziane di Cellatica e in tutti coloro che vivevano del prodotto della terra, erano molto partecipate.
Ancora negli anni Sessanta, prima che il lavoro nei campi venisse completamente abbandonato per un’occupazione più redditizia in fabbrica, era possibile
assistere a un’usanza antica, tramandata di padre in figlio, le Rogazioni.

Avevano origine antichissima, probabilmente si rifacevano a riti pagani di propiziazione e dal quinto secolo dopo Cristo apparvero nel calendario cerimoniale della Chiesa, in Gallia meridionale (attuale Francia), ad opera del vescovo Mamerto. Egli propose al suo popolo tre giorni di penitenza e di preghiera collettiva prima della festa dell’Ascensione per proteggere la sua terra dalle molte calamità che la tormentavano. Chiamò Rogazioni quella pratica religiosa in ricordo dell’antica rogatio romana che significa appunto richiesta, domanda, non riferita, pero, a provvedimenti legislativi, bensì ad un’implorazione di aiuto.

Si ribadì la loro importanza anche durante il Concilio d’Orléans nel 511, prescrivendo addirittura digiuno e astinenza per i tre giorni. Con il tempo la severità di quell’usanza si mitigò, fu tolto infatti il digiuno che sembrò eccessivo in un periodo postpasquale in cui la Chiesa è in festa per la Resurrezione di Cristo, facendo persistere solo le processioni di  lunedi, martedì e mercoledì precedenti l’Ascensione (ricorda la salita al cielo di Gesù quaranta giorni dopo la Pasqua) e quella solenne di benedizione della campagna alla fine di maggio.

L’usanza si diffuse rapidamente in tutta l’Europa occidentale, come è ricordato nel libro di Prosper  Guéranger “L’anno liturgico” (1959), tanto che perfino l’imperatore Carlo Magno si toglieva i calzari e  seguiva, come un semplice e umile fedele, il corteo implorante.

Il cardinale san Carlo Borromeo, vescovo di Milano, nel Seicento, favorì quella pratica religiosa partecipando egli stesso alle lunghe processioni che paravano dal Duomo all’alba e si concludevano nelle crime ore del pomeriggio dopo aver visitato il lunedì medici chiese, il martedì nove e il mercoledì undici.
A Cellatica i più anziani ricordano ancora il tempo delle Rogazioni che si svolgevano in un periodo particolarmente felice dell’anno, quando dopo l’inverno, non snaturato dall’effetto serra come oggi, la primavera si affermava, con i suoi tepori e i suoi colori rinnovati, per sostituire, tra il sollievo generale, i grigiori dei mesi precedenti.
Già nel periodo pasquale si notava un risveglio della natura, che suscitava gran voglia di fare pulizie generali di casa con tinteggiatura delle cucine; bucato all’aria aperta delle lenzuola accumulate in soffitta durante l’inverno; confezione di vestiti nuovi per la Pasqua; giochi nei cortili e scorribande nei campi; bambini, a piedi nudi, in corsa per le strade a lucidare le catene dei camini; raccolta di erbe e fiori selvatici; passeggiate in collina con canti a squarciagola che echeggiavano, fin giù, nelle strade del paese.
Quando poi la primavera si era completamente affermata ecco il tempo delle Rogazioni, vissuto come un evento corale di intensa devozione, in quei tre giorni in cui praticamente tutta la comunità si radunava, fin dalle sei del mattino, davanti alla Chiesa parrocchiale per iniziare la processione che ogni giorno seguiva un particolare itinerario. Uno si snodava verso san Rocco e la chiesina della Madonna della Brina; un altro verso la località Cocchio (attuale via Fermi) e il villaggio Aldo Moro, allora occupato da rigogliosi vigneti e piante da frutto; poi quello diretto alla Madonna della Stella, partendo dalla cappella di San Girolamo di palazzo Covi (ora chiusa al culto).
Davanti al corteo i chierichetti con la Croce, poi i fedeli delle Congregazioni, tra cui quelli del Santissimo Sacramento in tunica bianca e mantellina rossa, le Figlie di Maria con il velo bianco, i sacerdoti e i fedeli.
Durante il tragitto c’erano delle fermate in cui il prete, alzando la croce verso il cielo, rivolgendosi ad ogni punto cardinale, recitava a voce alta le rituali implorazioni: A folgore et tempestate (dai fulmini e dalla tempesta) mentre gli altri inginocchiati rispondevano Libera nos Domine (liberaci oh Signore), continuava poi con A peste, fame et bello (dalla peste, dalla fame e dalla guerra) e i fedeli di rimando il consueto Libera nos Domine. Lungo il tragitto ogni chiesina veniva visitata, alla fine del percorso si tornava in Parrocchia per la celebrazione della Messa.
Durante le soste la preghiera personale si faceva più intensa ed ognuno andava con lo sguardo verso il proprio terreno con la speranza di non far mancare la benedizione celeste nemmeno al più piccolo pezzo di campo, troppo importante per la misera economia della maggior parte della popolazione.
In estate, quando la siccità incombeva, si organizzavano processioni al Santuario della Madonna della Stella, a conclusione di novene di preghiere, portandosi Fombrello, sicuri che al ritorno una benefica pioggia avrebbe placato l’afa e la siccità rovinosa per le viti. Così succedeva e al ritorno allegre cantate accompagnavano le comitive contente di farsi sentire fino alla più lontana casa del paese.
Venivano inoltre tenute specifiche cerimonie specifiche cerimonie per la benedizione della campagna.Poichè i contadini erano impegnati nei lavori dei campi si preferiva dedicare il mese di novembre anzichè quello di maggio alle devozioni alla Madonna con benedizioni riguardanti, di volta in volta zone limitate del territorio coltivato.

Quasi ogni famiglia aveva la sua cantina oppure, se la produzione di uva era limitata, si lavorava presso altri che per l’occasione mettevano a disposizione i loro locali. La vocazione vinicola del paese era già presente molti secoli prima dell’Unità essendo il suo territorio ricoperto quasi interamente di viti e alberi da frutto.
L'attività lavorativa, essenzialmente agricola, soffrì enormemente durante l’epoca napoleonica caratterizzata da grande disordine e da frequenti ruberie nei vigneti ad opera delle truppe francesi. La situazione economica di Cellatica era veramente al collasso e fu Ottavio Boroni che si fece carico della rinascita della viticoltura come ricorda una iscrizione nel suo palazzo di via Attico.
Due tra le più ampie ed attrezzate cantine, quella della famiglia Boroni in via Attico e l’altra, attigrua, dei fratelli Trebeschi, producevano
rispettivamente ogni anno attorno alle 6000 e 2000 gerle di vino ogni gerla era capace di circa 50 litri) come ricorda Gabriele Rosa nel 1852 per quella dei Boroni e come è testimoniato da una pianta conservata nella famiglia Maggi Trebeschi per la loro cantina. Molto0 grande era anche quella dei Binetti, alla Cinta già proprietà dei Borgondio Sala e poi Folonari, come pure quella dei Pulusella poi Mazzola.
I ceppi di vite prevalenti, secondo la memori storica locale, oltre alla vernaccia, erano: Schiavi. Brugnera (forse proveniente dalla Borgogna), Maiolina di Valcamonica e Rossera o Barbarossa. Erano presenti anche il Groppello, il Marzemino, il Negrar e, in misura minore, la Malvasia usata per ammorbidire il gusto del vino.
Negli ultimi decenni dell’Ottocento, come già '.tenuto nei secoli precedenti, vi furono proteste per l’introduzione di vini meridionali che, giunti in abbondanza nella zona, provocavano un deprezzamento del vino locale. Si legge anche in un articolo de ‘La Sentinella’ del 23 settembre 1898 che alcuni possidenti non volevano cedere le loro uve collina a meno di £ 44 al quintale, e quelle di pianura a £ 40, mentre altri erano disposti a cederla prezzo di 35-38 lire.
Prezzi esagerati, secondo l’articolista, anche se riconosce che il paese di Cellatica in fatto di viticoltura quest’anno può andare veramente orgoglioso inquantoché possiede vigneti ricchi di magnifica uva, che per essere stati ben curati e a tempo, contro la peronospera, si può dire francamente, sono tra i migliori di tutta la nostra provincia. In questi ultimi giorni si fecero varie vendite e di grosse partite di uva al prezzo massimo di £ 36 al quintale e minimi di £ 25 da caricarsi nel fondo, trasporto a carico del compratore.
L’impegno dei viticoltori di Cellatica è sempre stato presente per proteggere il proprio prodotto e salvaguardare le caratteristiche dei vitigni locali, quasi un anticipo di quella che fu, nei primi anni Settanta, la Denominazione di Origine Controllata (DOC) che permise di garantire la qualità e la particolarità di vini quali il Cellatica, tra i primi in Italia ad ottenerla, ancora oggi presente e distinto da quelli di Franciacorta con la sua specifica denominazione legata al nome del paese.
Nel 1952 la signora Eletra Trebeschi, nipote di Giovanni, primo sindaco di Cellatica, si attivò con altri per dar vita alla Cantina sociale nel tentativo di proteggere la produzione di vino, sempre in balìa del mercato. Il 9 febbraio si presentarono al notaio Andrea Bettoni i signori: Lantieri de Paratia) Federico, Trebeschi Giovanni, Giavarini don Giuseppe, Gosio Erminio, Trebeschi Eletra ved. Maggi, Panciera di Zoppola Teresa, Salvi Roberto, Trebeschi aw. Cesare, Togni cav. Virgilio per la costituzione della Cooperativa vitivinicola Cellatica - Gussago tuttora presente sul territorio, ora con altra gestione.
Da un articolo del Giornale di Brescia, conservato dalla signora Lucia Maggi, figlia di Eletra Trebeschi, databile al settembre 1967, si può leggere come ancora in quegli anni l’attività prevalente fosse quella della viticoltura, a riprova di quanto detto prima sul cambiamento dell’ambiente avvenuto solo negli anni Sessanta-Settanta, dopo secoli di aspetto quasi immutato.
Stralciando dall’articolo senza firma, intitolato “Vendemmiale - Dove le cantine sono monumento nazionale e il raccolto dell’uva compendia le fatiche di un anno”, si legge:
Chi vuol vedere la vendemmia, la vendemmia con la V maiuscola...che si respira e si odora e non dà tregua coi suoi colori e i suoi sapori, deve portarsi sulle colline tra Gussago e Cellatica (...). Dalla linea
dei Campiani alla pianura discendono tanti poggi (...).Da un capo all’altro li copre la fitta trama dei rinomati vigneti (...). Altrove la vendemmia si concepisce come un episodio nella vicenda dei campi, come un gaio interrompimento alla sequenza delle fatiche agresti. Qui si compie come un atto solenne, della maggiore importanza (...) dacché non esistono altre risorse all’infuori della coltivazione delle frutta (...). Altrove al rango di monumento nazionale sono elevati i palazzi, le chiese, le torri, le statue. Qui una cantina. Parliamo delle cantine della Congrega frescate con figure e motivi e allegorie bacchiche (...) conferiscono alla costruzione un’aria aristocratica (...). L’altra meraviglia sta nel palazzo di faccia fin via Attico), sono le cantine Trebeschi: una parata di enormi tini escavati a mano in un sol blocco di marmo veronese (...). Negli orci secolari fermentò anche il vino della libertà patria perché nel buio delle cantine Trebeschi furono nascoste le armi della spedizione Camozzi.

Dopo la parentesi storica, l’articolo continua con la descrizione della festa: Gli aspetti sono quelli d’una sagra laboriosa, l’andirivieni dai vigneti ai cascinali e al paese è accompagnato dai canti; grida e richiami volano giocondi da filari a filari (...). Carri che fanno la spola tra i poderi e le cantine e portano intorno bigonci traboccanti. Nei cortili la messa in scena della pigiatura (...). E bambini dappertutto: a frotte, a schiere, a nugoli (...) vere mosche cocchiere, portano giocondità e impiccio per ogni dove (...) si impiastricciano di sugo la faccia (così nacquero le maschere di Dioniso) nascondono chicchi sani o spiaccicati negli angoli più impensati della persona (...). Dove passano, passa un gioioso ciclone recando scompiglio.
La massaia li insegue e minaccia: «Se Dio vuole, andrete a scuola!» (...) Vanno i grappoli dal tralcio alla botte in poche ore (...) in un paesaggio tutto freschezza e pace, condito dall’amabilità di gente che come fu tenace nel difendere il frutto dalle insidie del clima o dalla ruberìa del malintenzionato, ora è pronta nel gesto di offerta all’ospite e al viandante (...). Il sentore delle pigiature intride l’aria, ci si immagina il brusìo il fervore il sobbollimento delle migliaia di ettolitri di mosto di cui Cellatica si va caricando (...).

Quell’immagine della vendemmia negli anni Sessanta, coinvolgente l’intero paese, tutto proteso nel lavoro di raccolta e lavorazione dell’uva con sistemi artigianali, potrebbe riferirsi anche ai secoli passati sia per la mancanza di attrezzature meccaniche che per il paesaggio interamente dominate da vigneti e piante da frutta.
Il reddito da coltivazione della vite infatti en integrato da quello offerto dalle numerose piante da frutto, soprattutto di pere, i cosiddetti pér de spi (pere di spina, dalla buccia dura e spessa), che si conservavano per l’inverno, il cui ricavo annue complessivo nel paese era di £ 200.000, come riferisce Gabriele Rosa nel 1852.
Tra i filari dei vigneti, erano anche coltivati per consumo familiare, fagioli e granoturco.
I toponimi e la memoria collettiva testimoniano la presenza dell’ulivo in zone soleggiate d collina, dove ci sono terreni denominati Oliver, ( verso ovest, in prossimità della Cudola. Nelle zone pianeggianti c’era una piccola produzione di grane e farro e, per l’alimentazione degli animali da cortile presenti in ogni famiglia, di melga e foraggio.
Diffusa era la coltura del baco da seta che richiedeva una sistematica coltivazione di gelsi, intensificatasi dopo il 1853 quando Elisa Novelli giovane moglie di Giovanni Maria Trebeschi, il piè giovane dei tre fratelli patrioti del Risorgimento avviò una filanda. All’inizio consisteva in un’attrezzatura limitata, in un’ala della sua casa, aumentata via via fino a raggiungere in un edificio nuovo vicino all’abitazione di via Attico, l’impiego di 80 bacinelle, dando a molte donne, fino a 140 circa la possibilità di integrare il magro bilancio familiare, basato esclusivamente sul lavoro agricolo, poco sicuro perché sempre in balìa delle condizioni atmosferiche.
Dopo i primi anni di conduzione da parte dei coniugi Trebeschi, la filanda fu affittata e gestita da altri, rimanendo attiva fino al 1951, quando chiuse dopo un tentativo fallito di creare una cooperativa tra i dipendenti.
Una ricerca interdisciplinare sulla filanda è stata realizzata nel 2005 dagli scolari delle classi quarta A e quarta B della scuola elementare di Cellatica, con la guida delle insegnanti Maria Emilia Tonoli, Ivana Mori, Marinella Rubino e Antonella Catalano per il Concorso Gandovere Giovani “Un angolo di cuore” che attribuì alla ricerca il primo premio.
L’anno precedente le stesse classi si erano classificate al primo posto con un contributo sulla chiesina di San Rocco, che è conservato, insieme a quello sulla filanda, in Biblioteca Comunale.
 

 

vecchie foto di vendemmia
degli anni Cinquanta e precedenti




 

Cesare Bertulli - Fiorenza Marchesani Tonoli

 

 

(continua)


 

 

 

 

 

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piazzascala.it -  giugno 2017