Dal voto locale a quello nazionale per tutti
 

All'inizio dell’Ottocento a Cellatica fu ancora convocata la Vicinìa, in funzione da sette secoli, poi sostituita dal consiglio comunale per l’amministrazione della comunità e, a livello nazionale, con l'unità d'Italia, dal Parlamento, per la cui elezione, però, non erano ammessi al voto tutti i cittadini.
Dopo il 1815 le autorità austriache (Imperiale Regia Delegazione Provinciale che dipendeva dal Vicerè residente a Milano) nominarono periodicamente un delegato politico (una sorta di podestà confunzioni anche di polizia locale) responsabile dell'amministrazione del comune sulla base di rigide direttive imposte dall’alto.
I parroci erano, in maggior parte, molto legati al autorità austriaca perché, essendo responsabili dell'istruzione elementare e della morale pubblica, a esano il tacito compito di educare all’obbedienza civile, preoccupati di mantenere quell’ordine sociale che ogni tentativo di cambiamento politico rischiava di sovvertire. Ci furono tuttavia molti sacerdoti che abbracciarono la causa della libertà civile pagando anche caramente le proprie scelte.
Solo con l’Unità d’Italia il regime da assoluto si mutò in costituzionale, avviando la conquista, moIto lenta e graduale, di quelle libertà personali che permettevano anche la partecipazione, mediante il voto, alla vita politica nazionale. Va ricordi: che secondo lo Statuto Albertino il capo del governo rispondeva al re e non al parlamento.
II sistema elettorale piemontese prevedeva il diritto di voto per tutti i cittadini di sesso maschile, di almeno 25 anni di età, in possesso dei diritti civili e politici, capaci di leggere e scrivere e paganti imposte per almeno 40 lire annue.
Alle prime elezioni politiche del 1861 parteciparono quindi poco più di 418.000 votanti e cioè circa l’1,9% dei 22 milioni circa di cittadini di cui era composto il nuovo stato italiano.
Nel 1872 l’età di 25 anni venne abbassata a 21, ma, essendo ancora molti gli analfabeti, la percentuale effettiva di ammessi al voto non aumentò molto.
La legge Zanardelli del 24 settembre 1882 riconobbe il diritto di voto a tutti i maschi maggiorenni purché versassero almeno lire 19,8 annue di imposte; il numero degli elettori aumentò quindi in modo significativo, ma una larga parte della popolazione (comprese le donne) ne rimase ancora esclusa.
Nel 1912 una legge, voluta da Giovanni Giolitti, stabilì il diritto di voto per tutti i maschi capaci di leggere e scrivere di almeno 21 anni. Gli analfabeti potevano votare solo dopo i 30 anni di età o dopo aver prestato il servizio militare.
Dopo la prima guerra mondiale venne nuovamente modificata la legge elettorale ed al voto furono ammessi tutti gli elettori di sesso maschile anche se analfabeti. Avevano, inoltre, diritto di voto anche i minorenni purché avessero assolto gli obblighi militari in corpi mobilitati. Il sistema elettorale proporzionale sostituì il precedente maggioritario su due turni. Grazie a quella legge il corpo elettorale raggiunse gli 11 milioni di persone (ma le donne erano sempre escluse).
Solo nel 1946 il diritto di voto diventò veramente universale e per la prima volta anche le donne poterono votare. Le prime elezioni in assoluto alle quali parteciparono furono quelle amministrative della primavera 1946, seguite quindi dal referendum istituzionale, del 2 giugno 1946, che abolì la monarchia
 

Cesare Bertulli - Fiorenza Marchesani Tonoli

 

 

(continua)


 

 

 

 

 

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piazzascala.it -  settembre 2017