La Banca di Raffaele Mattioli - un libro di Andrea Calamanti

A fine novembre abbiamo presentato il libro di Andrea Calamanti  "La Banca di Raffaele Mattioli - Una visione unitaria e sistemica"
Dato l'interesse dei colleghi ex Comit per la figura di Raffaele  Mattioli, profondo umanista ma soprattutto, a nostro giudizio uno dei più grandi banchieri mai esistiti (se non il più grande (altro che Bazoli, Passera, Profumo, Messina tanto per fare alcuni nomi) siamo lieti di trascrivere di seguito un commento di Marco Vitale, economista d'impresa, bresciano di nascita, milanese di residenza, internazionale per cultura e attività.
Marco vitale traccia inizialmente un profilo della Comit che ci sentiamo di condividere in pieno, in particolare quando afferma: "secondo Mattioli la centralità del credito corrisponde alla funzione centrale assegnata al banchiere di “magistrato del merito del credito”, che richiede nel banchiere asimmetria di conoscenza rispetto al mercato oltre che integrità e indipendenza assolute. Conoscenza approfondita e speciale sull’affidato, integrità e indipendenza assolute sono i fattori che legittimano il suo guadagno di intermediario. Altro che gli automatismi matematici dominanti nella classe attuale che stanno alla base dei grandi errori di credito che hanno portato il sistema alla crisi del 2007."
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Ecco quanto ha scritto Marco Vitale: leggetelo tutto con la massima attenzione e  vi ritroverete sicuramente nelle sue parole.


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I MIEI RICORDI DELLA COMIT

 

Non avendo avuto la fortuna di conoscere personalmente Mattioli, il mio intervento si articolerà in due parti. Nella prima evocherò i miei ricordi della sua Banca, la Comit, che invece conobbi bene, a partire dagli anni ’60 sia in alcuni suoi vertici, come Bombieri e soprattutto Cingano, che nei valentissimi dirigenti degli uffici crediti, una banca che non ho mai avuto incertezze nel definire la migliore banca, non solo italiana, della mia esperienza professionale. Leggendo il libro di Calamanti ho capito meglio le ragioni e le radici del mio giudizio. Nella seconda parte svilupperò  alcune riflessioni suggeritemi dalla lettura del libro di Calamanti, anche in relazione alla situazione attuale.
 
Pochi mesi dopo la morte di Adriano Olivetti, nel 1960, alcuni suoi stretti collaboratori, pubblicarono un corposo volume che raccoglieva testimonianze e ricordi di 44 personalità internazionali su Adriano Olivetti. Il gruppo comprendeva filosofi, letterati, politici, storici, sociologi e altri, ma non vi era un solo imprenditore o rappresentante del mondo imprenditoriale. Fui molto colpito da questa assenza e ancor più fui colpito dal fatto che, con l’unica eccezione della testimonianza di Saragat, nessuna di queste testimonianze parlava di Adriano imprenditore. Tutti lo ricordavano come uomo di cultura, pensatore, urbanista, fondatore del Movimento politico di Comunità. Come se tutto ciò non avesse le sue solide radici proprio nel fatto che Adriano era stato, innanzi tutto, un grande imprenditore di successo, ed un formidabile organizzatore; un grande imprenditore molto colto a dimostrazione che tra imprenditori e cultura può esistere simbiosi. Questo vero e proprio equivoco (contrasto tra essere imprenditore e uomo di cultura), abilmente alimentato dai letterati dell’entourage di Adriano, si è protratto a lungo. Solo negli ultimi 10 anni è partita la riscoperta di Adriano imprenditore, che si fa ogni giorno più viva.
 
Un rischio analogo mi sembra abbia corso Mattioli. Ogni volta che ne ho sentito parlare, l’ho sempre sentito evocare come il banchiere letterato, il banchiere colto, il banchiere umanista, il banchiere editore. Se non avessi conosciuto per diretta esperienza la Comit, il suo vero autentico capolavoro, avrei finito per farmi di lui l’immagine di un Presidente banchiere, ricco, un po’ eccentrico, un po’ viziato, che si divertiva con la letteratura ed i letterati. Persino Marcello Boldrini, ordinario di statistica all’Università Cattolica, l’uomo che riuscì a convincerlo a tenere alla Cattolica il Corso di Tecnica Bancaria, suo grande estimatore e amico, per festeggiare i primi 25 anni di esercizio  della responsabilità di Mattioli come amministratore delegato della Comit, gli scrisse: “Ed io non so – anzi – se un giorno si parlerà più di te come restauratore della “Commerciale” dopo la Great Depression, oppure come l’uomo che ha lasciato alla cultura italiana la grande collezione dei classici (e non questa sola). A me piacerebbe di più quest’ultimo vanto”(28 maggio 1958).

Fortunatamente oggi siamo riuniti per parlare di Mattioli, grande banchiere e grande organizzatore, come ce lo restituisce l’ottimo e rigoroso libro di Andrea Calamanti dal titolo felicissimo: “La Banca di Raffaele Mattioli”, dove la personalità di Mattioli emerge attraverso la lettura approfondito del suo vero capolavoro, la sua Banca;  e dal sottotitolo ancora più felice: “Una visione unitaria e sistemica”. Perché Mattioli è stato  soprattutto un grande banchiere e un grande manager capace di attrarre i collaboratori migliori e di motivarli dal profondo, in una visione unitaria e sistemica, sia della banca che dell’economia che della cultura.  Per grandi personalità come Adriano e Mattioli la cultura non è un orpello, o un vizio, o qualcosa di diverso dalla professionalità, ma anzi è elemento essenziale del fare impresa e del fare banca, come loro la hanno saputa fare. Per questo dobbiamo sempre vederli operare in una visione e azione unitaria e sistemica. Così come unitaria e sistemica era la Comit che io ho conosciuto a partire dagli anni ’60. Cercherò di seguito di evocare i miei ricordi più duraturi della Comit che ho conosciuto in quegli anni, nel corso della mia attività professionale.
 

 

 

 

1. Integrità assoluta

 

Può sembrare una constatazione scontata e superflua. ma non lo è, soprattutto con riferimento ai nostri giorni, dove affiorano sintomi che la malattia più grande dell’Italia, la corruzione, è penetrata ormai anche in parti non minori del sistema bancario spesso in forme molto sofisticate. Ma io attribuisco al termine “integrità assoluta” e ad ogni livello, un significato più importante dell’assenza di corruzione. Intendo l’assenza di strumentalizzazioni di qualunque tipo del proprio ruolo e del proprio potere, l’agire sempre e solo con il pieno rispetto delle regole del gioco, con indipendenza di giudizio, alla ricerca della migliore mediazione tra l’interesse dell’istituzione  e del cliente, per risolvere al meglio i problemi sul tavolo. Questo era l’approccio di tutti gli uomini Comit con i quali ho avuto modo di lavorare, ed era un bel lavorare, con serenità, fiducia e rispetto reciproco. E non era questione di etica e di morale, perché come ricorda Calamanti morale e etica “sono termini che Mattioli non ha mai utilizzato e ai quali non si è mai appellato. Per Mattioli si trattava di senso della professione, di coscienza del mestiere” (op. cit. pag. 9). Era una scuola.

Secondo Mattioli la centralità del credito corrisponde alla funzione centrale assegnata al banchiere di “magistrato del merito del credito”, che richiede nel banchiere asimmetria di conoscenza rispetto al mercato oltre che integrità e indipendenza assolute. Conoscenza approfondita e speciale sull’affidato, integrità e indipendenza assolute sono i fattori che legittimano il suo guadagno di intermediario. Altro che gli automatismi matematici dominanti nella classe attuale che stanno alla base dei grandi errori di credito che hanno portato il sistema alla crisi del 2007.

 

 

2. Competenza massima

 

Un’altra caratteristica fondamentale della Comit e dei suoi uomini di allora era la massima competenza. Quando c’era una questione complessa, soprattutto con implicazioni internazionali, non avevamo dubbi: andiamo alla Comit. Anche in altre banche vi erano esperti di vaglia. Ma alla Comit era diverso. Non andavamo a incontrare un esperto. Andavamo alla Comit, certi che la Comit avrebbe saputo estrarre dal suo forziere tutto il meglio di cui avevamo bisogno. Non era questione di persone ma, anche qui, di una scuola. La Comit era una banca di credito ordinario, anche se Calamanti illustra bene che Mattioli si rendeva conto che, in una certa misura, una dose di credito mobiliare e finanziario fosse indispensabile. Ma la caratteristica di fondo rimase quella di una banca di credito ordinario, aspetto ribadito, con ancora maggiore convinzione e rigore, dal successore Cingano. Dunque le competenze specifiche, industriali, proprie del credito mobiliare e industriale appartenevano agli istituti di credito specializzati a medio termine.

Eppure molte di queste competenze erano ben presenti in Comit, attraverso conoscenze approfondite dei settori industriali e delle dinamiche economiche congiunturali e settoriali. Si sentiva che dietro all’operatore c’era un sapere comune, sedimentato e organizzato da un fior di ufficio studi, che Mattioli aveva voluto da subito come una delle attività più importanti nella nuova Comit che nasceva dalla ristrutturazione degli anni ’30. L’ufficio studi fu fondato, infatti, nel 1933, quasi contemporaneamente (altra interessante coincidenza) con quello che il giovane Adriano Olivetti fondò dopo l’assunzione della responsabilità di direttore generale e che sarà una chiave del grande sviluppo della Olivetti del dopoguerra.

 

 

3.  Capacità di ascolto. Niente di meccanico o di burocratico

 

Una terza caratteristica generale degli uomini Comit era la capacità di ascolto; che voleva dire da una lato rispetto per il cliente, dall’altro volontà di capire, curiosità, senso di partecipazione. Ed è un ricordo  che trova conferma e spiegazione nelle parole stesse di Mattioli, come documenta Calamanti: “Un mestiere (quello del banchiere) che, fatto con coerenza, costa fatica e patemi, discernimento e coraggio, entusiasmo e nervi a posto. Senza questo assurdo conglomerato di affetti e qualità contraddittorie, senza questo “ottimismo”di fatto e non di umore, si diventa burocratici. E l’esercizio del credito non è attività burocratica”(op. cit., pag.9).

 

 

4. Sentimento di partenariato

 

L’effetto delle caratteristiche personali e operative che ho sopra illustrato, faceva nascere, nel tempo, un senso di partenariato. Io, come consulente e amministratore dell’impresa cliente, e il rappresentante Comit sentivamo di avere uno scopo comune: risolvere professionalmente il problema che avevamo di fronte. I limiti della collaborazione erano chiari e precisi. Ognuno aveva  un ruolo preciso, doveri precisi  da assolvere, interessi precisi da tutelare. Non si andava in Comit a chiedere favori. Così come favori non venivano chiesti a noi. Ma l’intesa tacita era che dovevamo lavorare insieme per risolvere al meglio la questione e per crescere insieme professionalmente nell’interesse reciproco sia della banca che del cliente. La frequentazione di persone, ad esempio, come Cingano non aveva solo una valenza professionale. Rappresentava un arricchimento personale sul piano generale.  Il saggio di Coltorti, citato in premessa, offre un’immagine completa e precisa di Cingano, certamente degno successore di Mattioli. Di lui ricordo la grande competenza e concretezza. Ma ricordo anche il suo impegno sui temi dello sviluppo generale e bancario, la sua crescente preoccupazione per un sistema bancario sempre più appesantito da vincoli e da una gestione politico- amministrativa del sistema, la sua disponibilità al dibattito pubblico e privato, la qualità dei suoi scritti sul sistema bancario e sul banchiere, e soprattutto la sua disponibilità umana.

 

 

5. Forte senso di identità e di appartenenza

 

Come è tipico delle organizzazioni forti il senso di identità e di appartenenza di tutti i dipendenti e collaboratori della Comit era molto spiccato. A qualunque livello. E questo sentimento era capace di coinvolgere in parte anche persone estranee, non legate alla banca da un rapporto formale di collaborazione. Per questo quando, nel 1971, lessi che la politica aveva imposto come nuovo presidente, Gaetano Stammati (a quel tempo Ragioniere generale dello Stato), ne fui profondamente e amaramente colpito. Lo vissi come un tradimento e un’offesa alla Comit, come un segnale che la politica (Andreotti e Colombo), voleva mettere la sua bandiera su una trincea che, seguendo gli insegnamenti di Menichella e Einaudi, doveva agire in modo indipendente dalla politica, sia pure secondo le direttive generali di governo, e ciò anche se la proprietà era al 100% di un ente pubblico come l’IRI. E così era stata gestita la Comit di Mattioli secondo principi che risalgono, in realtà, a quelli voluti da Beneduce sin dalla costituzione dell’IRI, senza iattanza ma senza la viltà di coloro che avevano la possibilità di difendere quei principi  e non lo fecero (Petrilli e Carli).  Questi erano i miei sentimenti a quella notizia di un alto burocrate piombato da Roma alla presidenza della Comit, imposto dalla politica in contrasto con la volontà di Mattioli. E ciò sarebbe stato vero comunque, anche se non avessi conosciuto Stammati. Era il suo profilo, la sua storia, la sua formazione che mi portava a queste conclusioni. Invece lo avevo anche conosciuto dieci anni prima, quando ero collaboratore a Roma del Prof. Cesare Cosciani e lavoravo con lui sui lineamenti della riforma fiscale che, con modifiche, diventerà la riforma fiscale degli anni ‘70. Allora Stammati non era ragioniere dello Stato ma era, comunque, già un alto dirigente in carriera della burocrazia ministeriale al Ministero delle Finanze. E l’averlo conosciuto personalmente non attenuò ma anzi acuì la mia sofferenza alla notizia della sua presidenza alla Comit. Era difficile immaginare una persona meno adatta di lui a fare il presidente della Comit. Per questo fu sempre percepito come un estraneo, e lo era. L’unica consolazione era che fonti dall’interno della banca mi auspicavano che si stavano predisponendo le difese per tenerlo isolato dal corpo sociale e relegarlo esclusivamente ai compiti di rappresentanza che la carica comportava. Leggendo alcuni dei testi citati in premessa, soprattutto quelli di Gerbi e Coltorti, trovo conferma che quell’azione di sbarramento funzionò perfettamente.

 

Ma il segnale forte la politica lo aveva dato. Fu una svolta negativa, un allarme per il Paese. Quella muraglia tra politica e affarismo che era stata tracciata da uomini come De Gasperi, Vanoni, Menichella, Einaudi, Mattioli incominciava a sgretolarsi.

 

 

 

RIFLESSIONI SU “LA BANCA DI MATTIOLI” DI ANDREA CALAMANTI

 

Alcuni aspetti importanti della Banca di Mattioli sono già emersi dai miei ricordi personali sulla Comit. Ma una cosa sono i ricordi personali, necessariamente impressionistici e incompleti, altra è un’analisi rigorosa e scientifica come quella di Calamanti. Mi concentrerò quindi su alcuni punti della visione di Mattioli, come emergono dall’analisi di Calamanti, che sembrano a me di particolare attualità e interesse.

 

1.      “LA BANCA ESISTE PER FARE CREDITO”

 

“Più volte abbiamo ribadito  in questa sede una verità lapalissiana solo nella formulazione: che la banca esiste per fare credito” (Mattioli, citazione in Calamanti, pag. 12).

Con questa solo apparentemente lapalissiana verità Mattioli pone con chiarezza la pietra d’angolo che regge la sua visione (Relazione Comit per il 1960 letta nell’aprile 1961). E’ su questa base che si innesta l’attività bancaria che è sempre di “intermediazione”. E’ responsabilità dei gestori di verificare che le varie forme di intermediazione siano tra loro equilibrate: “Considerate di congiunto, viene in luce come la funzione essenziale della banca sia appunto quella di mediare: mediare in due sensi complementari: mediare tra raccolta e impieghi e mediare tra risparmio e investimenti. Il risultato della prima mediazione è l’esercizio del credito, che a sua volta stimola la formazione di nuova raccolta. Il risultato della seconda – intermediazione in gergo professionale, ossia compravendita, per conto di clienti, di valute e di “valori” – è l’incanalamento di quote di risparmio verso il mercato finanziario, la loro integrazione nel processo produttivo con l’acquisto  o la sottoscrizione di azioni e obbligazioni e titoli di Stato. E’ compito di chi esercita questo mestiere di vigilare perché le due mediazioni, anziché intralciarsi a vicenda, si armonizzino ed integrino l’una con l’altra. La distribuzione delle disponibilità, e non solo di quelle palesi (depositi e conti correnti), ma anche di quelle in via di formazione sul mercato, dev’essere equilibrata e sempre in rapporto, e cioè in reciproco “controllo sincrono di limiti”, con il volume e il ritmo degli investimenti e degli scambi. E tale rapporto viene verificato costantemente da quell’ago della capacità lavorativa d’ogni azienda bancaria che è il grado della sua “liquidità”: ago che è deviato dalla posizione verticale, non solo da ogni squilibrio tra raccolta e impieghi, ma anche da ogni prevalere d’una forma di mediazione sull’altra. Può essere eccessivo il convogliamento di fondi ai crediti ordinari (espansione creditizia) e può essere eccessivo l’assorbimento di fondi da parte del mercato finanziario. Il compito di chi ha la responsabilità di vedere come vadan veramente le cose è di cercare di capire – come ci siamo sempre sforzati di fare – quale sia la realtà del mercato, quali cioè le necessità delle imprese e quali  le possibilità della raccolta. L’erogazione  e l’esercizio del credito esigon questa diagnosi giorno per giorno, ne sono anzi, né più né meno, la traduzione nei fatti”.

E su questa visione si innesta il tema fondamentale delle distinzioni tra credito ordinario, credito finanziario, credito mobiliare, sul quale Mattioli ritorna spesso con continui approfondimenti. Mattioli che da giovane, ma già in posizione di vertice, ha vissuto dall’interno la crisi della banca mista non vuole ritornare a quel tipo di banca mista, ma sa che gli schematismi eccessivi e troppo rigidi sono contro la realtà. Come commenta molto bene Calamanti: “Con la massima semplificazione, lo schema di Mattioli è molto chiaro: le banche debbono raccogliere per erogare prestiti nella misura sufficiente a soddisfare le necessità di finanziamento dei capitali circolanti delle imprese (tralasciamo per comodità lo Stato e gli altri soggetti), e debbono intermediare in titoli in modo da assicurare, attraverso il collocamento di azioni e obbligazioni, la copertura dei fabbisogni connessi agli attivi fissi. Sono dunque gli andamenti della produzione e degli scambi, e quelli degli investimenti, a orientare rispettivamente lo sviluppo ottimale delle due linee di attività. Quest’ultimo, a suo volta, trova riscontro nell’equilibrio delle strutture finanziare delle imprese. Equilibrio identificabile nella capacità di reperire fondi con prontezza e nelle composizioni ottimali, nonché nella sussistenza di un’armonia di rapporti, tra capitali circolanti e credito bancario da un lato, capitali fissi e mezzi propri integrati nella giusta misura da finanziamenti a protratta scadenza dall’altro. Il prevalere dell’una mediazione sull’altra, il non rispetto del quantum e del ritmo ottimale di ciascuna, ha implicazioni negative per tutte le parti in causa”.

E non si può non concordare con Calamanti quando conclude la sua riflessione su questo punto con queste parole:

“Per inciso, vi è ragione di ritenere che tra le cause della recente crisi finanziaria abbia avuto un ruolo di tutto rilievo proprio l’aver spinto oltre ogni limite ragionevole – con la complicità di prolungate bolle speculative e la latitanza delle Autorità di controllo[1] - sia l’intermediazione in titoli, prodotti derivati ed altri strumenti finanziari, sia l’erogazione di prestiti al settore immobiliare e al consumo. E non è affatto da escludere che il comportamento deviante di alcuni intermediati sia stato oggetto di emulazione, tanto da prevalere”(op. cit., pag.16).

 

 

1.      “LA RACCOLTA E’ IL MEZZO CHE NON VA CONFUSO COL FINE, COL CREDITO” (così Mattioli, cit. in Calamanti, pag. 20, nota 2)

 

La rincorsa ai depositi fine a se stessa, così come la rincorsa alle dimensioni sempre più grosse, fini a se stesse, è un pericolo per la banca e per il sistema. Nella Relazione per il 1966 Mattioli afferma che era da “respingere quel criterio scolasticamente americaneggiante di classificare le banche in base alla cifra onnivora della loro raccolta” (cit. in Calamanti pag. 19, nota). Tutte le componenti della gestione bancaria devono essere tenute sotto controllo e muoversi armoniosamente con il ritmo del mercato. Essere “condannati ad accrescere la raccolta” vuol dire che la banca è mal gestita.

Fu questa anche la linea di Cingano come ricorda Fulvio Coltorti, nel testo citato in premessa:

“Coerente con questa linea, Cingano  antepose la ricerca della redditività alla crescita dimensionale e il bilancio 1977 della Comit, che fu presentato all’assemblea della banca in aprile (due mesi dopo l’autocritica), confermò come il contenimento della raccolta, oltre a rispondere ad un interesse generale, aveva consentito alla banca di aumentare i profitti. Nella fattispecie, la raccolta era stata contenuta dirottando una parte della clientela su impieghi a più alto reddito come i Bot, i depositi vincolati di Mediobanca e le obbligazioni. Poco dopo, nel corso di un’audizione al Senato confermerà vigorosamente queste sue idee, battendosi contro la “monomania dimensionale da parte del sistema bancario, che trova la maggior espressione nell’aumento del deposito, comporta una affermazione di prestigio di carattere particolare per la propria istituzione e di qui la rincorsa ad una “classifica” – che è d’importazione americana e che considero fortemente deleteria per un’esatta comprensione dei problemi reali del sistema bancario – rincorsa che considero  fatto del tutto negativo[2]”.

 

 

2.          IL SISTEMA BANCARIO E’ UNO

 

“Ogni provvedimento può avere avuto al momento il suo razionale; ma, se posso formulare, più che un’obiezione, un remoto sospetto, temo che sia mancata, sia pure sotto la pressione degli eventi, una visione unitaria delle cose. Ci si è attenuti a separazioni e distinzioni formali, che hanno, o magari avevano una loro ragion d’essere; e per contare gli alberi uno ad uno non s’è più visto il bosco, né il suolo  da cui sorge, né il cielo da cui riceve i raggi del sole e gli scrosci di pioggia. Il sistema bancario è uno. Non c’è da una parte la Banca Centrale, dall’altro le singole aziende di credito. Sorvegliante e sorvegliati formano una sola e solidale comunità. Responsabile di tutta la politica monetaria e creditizia, in ultima istanza sei tu, Governatore. Non puoi guadagnare a nostre spese, così come noi non possiamo guadagnare alle tue. La sola ipotesi di un dissidio, di un contrasto di interessi tra la banca centrale e le altre banche è esiziale per tutti”.

Queste parole sono contenute in una importante lettera inviata da Mattioli al governatore Carli il 7 gennaio 1970 (in Calamanti, pagg. 62-64). E’ una lettera critica che lancia un allarme per delle minacce che si stavano concretizzando. Era l’inizio di un decennio di grandi difficoltà per l’economia e la società italiana, nel quadro di crescenti minacciose turbolenze, sia interne che internazionali. E la risposta del sistema, già percepibile da persone informate e lucide come Mattioli, era di aumentare la pressione del Tesoro sul sistema bancario e di sottoporre lo stesso ad una gestione sempre più vincolata al servizio della politica economica, o, forse, solo dei bisogni confusi e pressanti del Governo.

Siamo all’inizio di un’involuzione alla quale anche Cingano dedicherà nel corso del decennio successivo tante profonde riflessioni, critiche e allarmi sulla professione del banchiere sempre più appiattita come esecutore di direttive dirigiste. Ma questa lettera è di grande interesse anche perché ripropone un leit motiv di Mattioli, l’unità del sistema bancario. Abbiamo già sottolineato il tema dell’unità della banca nei suoi processi di “mediazione” gestiti con equilibrio. Qui siamo alla concezione dell’unità del sistema bancario e del rapporto tra banca centrale e banche operative. Oggi è qualcosa che non potremmo più dire o auspicare. Oggi tra banca centrale e banche operative è auspicabile un conflitto se vogliamo trovare una  via positiva che ci porti fuori dall’impasse nel quale siamo impantanati.  Mattioli completa poi la sua visione unitaria con la concezione dell’unitarietà del rapporto banca – sistema finanziario ed in particolare mercato mobiliare, di cui al prossimo paragrafo.

 

 

3.           LA BANCA SI SVILUPPA E PROSPERA SOLO SE SI SVILUPPA IL SISTEMA ED E’ SUO INTERESSE E SUO DOVERE ADOPERARSI IN TAL SENSO

 

La presenza di Comit sul mercato mobiliare, sia come operatore che come suggeritore di miglioramenti istituzionali e di sistema è sempre stato molto forte. Già nella Relazione per il 1948, illustrando i collocamenti obbligazionari curati da Comit per le imprese si afferma:

In pari tempo rendiamo un servizio anche a noi stessi, permettendo che si alleggerisca, attraverso queste operazioni, una pressione che altrimenti graverebbe tutta sul sistema creditizio, tendendo a travisarne le tipiche funzioni commerciali” (cit. in Calamanti, pag. 112, nota 3).

Questo tema ricorre  in altre Relazioni tra le quali mi sembra particolarmente significativa quella del 1953: “abbiamo incoraggiato e favorito questa più intensa raccolta di capitali sul mercato, nella certezza che gli investimenti da essa resi possibili avrebbero contribuito ad elevare il tono della vita economica, a combattere la disoccupazione, ad arginare e reprimere la tendenza al ristagno e insieme a prevenire ogni propensione inflatoria, pur rendendoci conto che un prelievo di fondi così cospicuo…. avrebbe rarefatto le disponibilità sul mercato monetario, la “materia prima” del nostro lavoro” (cit. in Calamanti, pag. 112,  nota 3).

Mattioli sa che il sistema italiano è bancocentrico ma lavora per allentare non per rafforzare questa dipendenza, come faceva invece la grande maggioranza dei suoi colleghi.  Egli vedeva con chiarezza che il credito ordinario può essere più sano e fluido, evitando di trasformarsi in credito finanziario e mobiliare mascherati, se il mercato mobiliare funziona e se gli istituti di credito industriale a medio termine funzionano. Così come vedeva con chiarezza i limiti alla crescita delle imprese che dovevano far conto solo sull’autofinanziamento per gli investimenti di sviluppo. Egli si batte, fra l’altro, per l’introduzione di nuove figure di investitori istituzionali, che considera complementari all’attività della banca “in una visione unitaria e sistemica”. Nella Relazione per il 1964  (Calamanti, pag. 116) diceva che il mercato mobiliare e specie l’azionario andava “curato, sviluppato e promosso… è altresì da augurarsi che vengano presto tradotti in legge, e in legge comprensiva e adeguata, i provvedimenti da tempo allo studio che permetteranno la costituzione di “investment trust” in tutto e per tutto identici a quelli operanti in altri paesi”. Ma l’auspicio di Mattioli si realizzerà solo nel 1984, venti anni dopo, grazie ad una specie di colpo di mano del Ministro Andreatta. Commenta Calamanti: “Venti e più anni inspiegabilmente perduti”.

Non sono d’accordo con l’aggettivo “inspiegabilmente”.

Ho vissuto passo passo questa vicenda proprio  a partire dal 1964 quando fui invitato a far parte di un gruppo di lavoro, insediato in Borsa, su sollecitazione di alcuni autorevoli parlamentari per l’elaborazione urgente di un progetto di legge sui fondi comuni. La molla per questa iniziativa fu la crisi finanziaria e congiunturale del 1964. Noi facemmo rapidamente il nostro compito e fu un buon lavoro che sarà ripreso, come base, nel 1984, per il provvedimento Andreatta. Poi collaborai alla costruzione del fondo lussemburghese Fonditalia che fu la risposta, ispirata da Carli, per dare una prima forma legale ai risparmi italiani che confluivano nelle capaci casse dei fondi dell’IOS  che agiva in Italia illegalmente con molto successo. Anche l’esperienza Fonditalia sarà preziosa formando i primi operatori italiani del settore. Poi nel 1984 collaborai alla stesura del provvedimento Andreatta guidata da Cammarano, capo di gabinetto di Andreatta. E infine sempre nel 1984 diventai  primo presidente del Gruppo Arca, formato da 12 banche popolari, che divenne da subito uno dei più vivaci e attivi sostenitori del nuovo mercato. Le grandi banche furono molto più lente a muoversi anche per paura di perdere i depositi. La storia di questi 20 anni spiega dunque, con chiarezza, il ritardo dell’Italia. L’establishment bancario era ostile a questo tipo di evoluzione. Avevano una visione diametralmente opposta a quella di Mattioli. Esattamente come l’establishment industriale era contrario ad Adriano Olivetti, l’innovatore. Ho potuto discutere a lungo il tema anche con il principale ispiratore e estensore dell’art. 47 della Costituzione, il prof. Tommaso Zerbi, che è vissuto  fino a tarda età, l’ultimo dei costituenti. Mi disse: dopo l’approvazione della Costituzione  ci rendemmo rapidamente conto che l’establishment economico italiano, sia industriale che bancario, era ostile allo spirito e alla lettera dell’art. 47, salvo per la proprietà della casa. L’art.47, per la parte mobiliare (che prevedeva quei trust di cui parla Mattioli), era ispirato all’idea ed allo spirito del capitalismo democratico. L’opzione dell’establishment era invece per un capitalismo di relazione; e ben presto il superstite spirito di matrice popolare e sturziana che aveva guidato il  gruppetto di cattolici che aveva voluto l’art. 47, fu sopraffatto dall’approccio del capitalismo dirigista e di relazione della nuova DC, che interpretava il volere dell’establishment fiduciario e industriale).

Dunque anni perduti sì, ma non “inspiegabilmente”[3].

 

 

4.            LA POLITICA DEGLI IMPIEGHI

 

La politica degli impieghi è centrale nella visione di Mattioli perché la “banca esiste per fare credito” e la raccolta è il mezzo che non va confuso con il fine, col credito”. E qui si collegano tutti i principali temi di una sana gestione, da quello della natura del credito, a quello della liquidità, a quello del capitale, a quello della finalità del credito e del suo effetto sul sistema. “Noi siamo consci della responsabilità …. di assicurare …. che un incremento dei nostri impieghi ordinari .… sia diretto unicamente a finanziare il processo produttivo …. escludendo in modo assoluto il sostegno di posizioni speculative di magazzino, per quanto solide possano essere le garanzie offertaci, ampi i margini di scarto, allettanti le condizioni”(Mattioli, cit. in Calamanti, pagg. 211-212).

L’approccio di Mattioli è giustamente definito da Calamanti un approccio da Banca Centrale. Il benessere della banca non può prescindere da quello della solidità e salute delle imprese clienti e del sistema economico nel suo complesso. Queste finalità erano assolutamente anteposte a quella del profitto ritraibile per quanto elevato.

Ma il credito non è unitario: c’è il credito ordinario commerciale, il credito finanziario, il credito mobiliare. E sulla distinzione tra queste tre categorie Mattioli si interroga continuamente, mettendo in luce come ogni tipo di credito abbia regole, esigenze ed effetti diversi: “veniamo al concreto: se la fonte di rimborso è la vendita di prodotti e di servigi, il credito è commerciale. Se invece il credito debba essere rimborsato attraverso collocamento sul mercato dei capitali, allora esso è sicuramente credito finanziario, o meglio mobiliare, anzi è senz’altro il “credito mobiliare”. L’altro resta credito bancario tout court – credito d’esercizio vero e proprio, o credito assecondatore dello sviluppo in atto dell’azienda, anticipo e prefinanziamento del così detto autofinanziamento: un credito cioè che trascolora nel “finanziario” in quanto finisca con l’essere “rimborsato” in due-tre esercizi con i profitti dell’azienda, senza che si renda necessario il ricorso ad operazioni di credito “mobiliare” (Mattioli, cit. in Calamanti pag. 234).

A Mattioli non sfugge certo che nella  realtà talora queste distinzioni diventano incerte e sfuggenti: “La distinzione tra credito ordinario e credito finanziario sembra ovvia e quasi direi assiomatica. Ma, in verità, quando si cerca di definirla, diventa incerta e sfuggente. La radice della difficoltà sta nella tacita presunzione che si possan separare, nell’unità vitale di un’azienda, i fondi presi a prestito per rafforzarne la struttura e quelli destinati a unger le ruote della produzione. Una volta entrati nell’azienda, i soldi ottenuti a credito, anche se costano differenti saggi d’interesse, anche se sottostanno a diverse condizioni di utilizzo e di rimborso e a specifiche garanzie, hanno una tendenza irresistibile a coagularsi, a confondersi e a ridistribuirsi, nell’interno dell’azienda, verso quegli scopi dove presumibilmente la loro virtù attiva è maggiore e più proficua” (Mattioli, cit. in Calamanti, pag. 232).

E, come riprenderemo nel paragrafo successivo, il tema si collega direttamente al tema della liquidità e del credito:

la distinzione da farsi non è tra crediti a medio o a breve termine (distinzione del resto ignorata anche dalla legge bancaria), ma tra crediti liquidi e crediti illiquidi o, più brevemente, tra crediti e immobilizzi. Un credito può essere liquido per la banca… anche se investito permanentemente nell’azienda beneficiaria. E un immobilizzo… può nascere dallo sconto della più schietta carta commerciale a sessanta e anche a trenta giorni. Il criterio distintivo  non può essere la durata formale del credito concesso, ma la sua natura e la bontà sostanziale, che vuol dire sicurezza di rimborso e proficuità di investimento”. (cit. in Calamanti, pag. 158).

Mattioli ammette che in una grande banca come la Comit una quota (non elevata, circa 10%) può essere di credito finanziario e quasi mobiliare. Ma con questo Mattioli non vuole certo ritornare alla banca mista o banca d’affari da cui era partito negli anni ’30: “Nell’ambito degli impieghi, gli immobilizzatori finanziari e mobiliari nel 1931 avevano progressivamente raggiunto una quota abnorme: 66% circa; in parallelo i crediti ordinari si erano ridotti ad un modesto 30%” (così Calamanti a pag.133).

Vi sono oggi in Europa banche miste dove queste proporzioni sono ancora più elevate. Il credito finanziario di una banca ordinaria deve essere un’eccezione limitata, motivata e transitoria. Per questo occorrono gli istituti di credito speciale, come l’IMI; per questo si crea Mediobanca; per questo la Comit è impegnata per un potenziamento del mercato mobiliare. Degli uni e dell’altro Mattioli lamenta l’insufficienza. Cingano ribadirà con ancora maggiore rigore che la Comit è banca di credito ordinario e tale deve rimanere. Tuttavia conosco alcuni casi di imprese che hanno avuto un grande sviluppo che non lo avrebbero avuto se la Comit degli anni ’60 non avesse concesso loro un po’ di credito finanziario o di sviluppo.

 

 

5.             LIQUIDITA’ STATICA E DINAMICA E CAPITALE PROPRIO

 

Mattioli fu, come già detto, soprattutto un grande banchiere, e un grande manager. Ma fu anche un profondo conoscitore delle tecniche bancarie, alla luce di una inarrivabile e lunga esperienza[4]. Calamanti analizza in profondità anche questi aspetti. Io, con rammarico,  per non appesantire  ulteriormente un già pesante scritto non posso farlo. Tuttavia non posso non fare almeno un cenno a due temi che hanno un valore che va oltre il loro significato puramente tecnico: il tema della liquidità e il tema degli strumenti conoscitivi.

Per Mattioli il tema della liquidità è strettamente legato a quello degli impieghi. E’ nella qualità e nella dinamica dei prestiti concessi che  si radica la solvibilità della banca, oltre che sul costante equilibrio di entrate e uscite monetaria. Per questo Mattioli (Calamanti pag. 67 e seg.) distingue tra “liquidità statica” e “liquidità dinamica”: “La liquidità intesa in senso “statico”, e cioè la  capacitò di pagare i propri debiti e di andare in “liquidazione” senza fallire, rectius “solvibilità” ha un carattere difensivo, protegge e garantisce lo status quo, rispecchia e assicura l’equilibrio dei rapporti di dare e di avere”. Ma la liquidità statica da sola è la liquidità della morte. Quella che assicura la vera solvibilità è la liquidità dinamica, cioè la capacità della banca di fare credito, quella che conta: “Liquidità non è liquido che stagna, ma liquido che scorre .… non è la liquidità effettiva, quella che ha una funzione dinamica, che promuove e garantisce il corso e lo sviluppo economico, che mantiene agile, sciolto e propulsivo l’organismo produttivo in tutte le sue articolazioni, la liquidità che soprattutto ci interessa”.  E ancora: “Una banca che si trovi a dover rimborsare  i depositanti è una banca che entra in liquidazione. Una banca che non continua a fare credito cade in letargo” e, quindi, in prospettiva, diventa insolvente. “ Per mantenere dunque una buon grado di effettiva liquidità, una banca  di credito ordinario ha solo un mezzo: curare il rapido giro dei propri crediti”.

 Mattioli non si stanca di ripetere che “…la effettiva garanzia (per il depositante) risiede, più che nei mezzi propri della banca, nella liquidità dei suoi impieghi”.

Con questo egli non sottovalutava la necessità di un capitale adeguato, non condivideva ed anzi era in una posizione opposta a quella di Maffeo Pantaleoni che aveva sostenuto che le banche potessero operare con mezzi propri irrilevanti rispetto ai volumi di attività svolta, se non addirittura nulli in linea teorica. La Comit di Mattioli operava con un capitale molto modesto e ripetute ed incisive sono le sue richieste al socio unico IRI di aumentare il capitale. E lucide sono le ragioni che Mattioli sviluppa a sostegno di questa richiesta. La ragione principale è: per poter alimentare e far crescere la liquidità dinamica. E’ sempre la sua visione “unitaria e sistemica” della banca la “stella polare” che lo ispira. E certamente si sarebbe molto inquietato se avesse saputo che al vertice della Banca d’Italia c’è oggi  chi sostiene la tesi che “la stella polare” della banca è il capitale: capitale adeguato dunque ma non “stella polare”, non valore dominante di un peso esasperato come viene assegnato oggi al capitale anche a discapito di altri valori.

E purtroppo questa posizione della direzione di Banca d’Italia non è isolata ma è dominante sul piano anche internazionale. Commenta  molto giustamente Calamanti:

 “Insomma, è a monte che va esercitata l’azione di tutela dei creditori delle banche e di stabilità del sistema. Se questa è inadeguata, a valle non c’è valido argine che possa tenere. Ne sono prova inoppugnabile le vicende emerse in coincidenza della recente grave crisi finanziaria. Vicende che, purtroppo, non sono state d’insegnamento: si continua,infatti, a puntare sull’oneroso argine a valle (i mezzi propri) senza regolare o agire sull’entità e la qualità dei rischi, molti nella finanza, che vengono assunti a monte. Si continua a confidare nel processo inverso che, di fatto, non ha funzionato e che, forse, è intrinsecamente inaffidabile”  (Calamanti, pag. 90).

 

 

6.            STRUMENTI CONOSCITIVI E DI ANALISI

 

Un breve cenno a questo argomento non perché non sia importante ma perché richiederebbe troppo spazio. Sin dal 1933 Mattioli impegnò la banca in un progetto importante per dotarsi di strumenti conoscitivi e di analisi adeguati. Una sintesi di questo progetto sintetica ma efficace è nella relazione di Mattioli al Comitato di Direzione Centrale del 26 maggio 1933  (in Calamanti pag. 156 nota 2). A questo progetto collaborarono in particolare Giovanni Malagodi, Antonello Gerbi e Gino Zappa. Tra i punti da segnalare: inquadramento settoriale delle varie attività delle imprese clienti, conoscenza approfondita delle imprese, anche con visite aziendali; visione dinamica dell’impresa cliente con esame continuo di almeno tre bilanci; sapiente distinzione tra autonomia decisionale delle filiali e del Centro; grande attenzione al fattore umano ad ogni livello; indici di analisi dei fidi affidati e sistemici (compreso un interessantissimo “indice di stagnazione”). Quindi anche qui c’è molto da imparare, compreso il fatto che, come afferma Calamanti a pag. 165, “la cultura e la filosofia della Banca e del suo vertice non avrebbe mai accettato che un modello o un qualsiasi automatismo potessero, di peso, prevalere sull’uomo e sulle sue capacità decisionali, piuttosto che fungere da meri ausili”.

 

 

7.              E ORA?

 

Libri come quello di Calamanti sollecitano una domanda. E ora? Che ne facciamo? Si tratta di una storia o anche di un insegnamento, di una lezione da applicare o di un semplice moto di struggente nostalgia? Riaffiora qui l’affinità con Adriano Olivetti. Da anni non si parlava più di Adriano come imprenditore, colto e anticonformista, che dava, sia da vivo che da morto, tanti fastidi ai suoi colleghi. Improvvisamente, negli ultimi anni, negli ambienti più diversi, si è incominciato a parlare di Adriano Olivetti imprenditore con una frequenza mai vista. E’ semplice nostalgia o qualcosa di più profondo? Lo stesso, mi sembra, stia avvenendo con Mattioli banchiere, sul quale non ho mai letto tanto come negli ultimi tempi. Nostalgia o  bisogno di verità? Forse tutte e due le cose insieme. Come ha detto molto bene Marco Onado nella recensione del libro di Calamanti: “Con uomini dello stampo di Raffaele Mattioli (ma anche di tanti colleghi della grande finanza di allora: basti citare Sigmund Warburg) non ci sarebbero state le degenerazioni che hanno costretto l’autorevole “The Economist” a coniare il termine Banksters. Perché avevano capito il ruolo ma anche i limiti della finanza e non cambiavano certo idea per ambizione e tanto meno per inseguire bonus principeschi. Se ci fosse una scuola di rieducazione per banchieri pentiti, questo libro dovrebbe essere l’equivalente dell’abbecedario”.

Ma questa scuola di rieducazione, per banchieri pentiti, per ora, non c’è, né la si intravede all’orizzonte. Per questo temo che la componente nostalgica sia, per ora, prevalente. Almeno  lo è per me. Non sono certo che sia così anche per Calamanti che, in vari passaggi del suo libro, sottolinea ripetutamente l’attualità degli insegnamenti di Mattioli. Così, commentando la già citata e fondamentale Relazione relativa al 1960, Calamanti scrive a pag. 12: “Anzi, le sue considerazioni e i suoi precetti sono oggi ancor più validi. Averli ignorati – non disattesi perché ciò presume che siano noti – è, nei fatti, una delle cause della recente grave crisi finanziaria (eccesso di produzioni da parte degli intermediari e mancato equilibrio tra le funzioni – le “mediazioni” – con effetti perversi e distruttivi”). Sui singoli temi e problemi, Calamanti ha sicuramente ragione. Ma è sui temi di fondo e più generali, quelli che si riferiscono al significato del fare banca oggi, che si incomincia a dubitare.

Un episodio relativo ad Einaudi può aiutarmi a spiegare il mio pensiero. Quando nell’Aprile 1945, Luigi Einaudi lesse, come Governatore della Banca d’Italia, la Relazione 1943, pronunciò queste parole: “Le banche non sono fatte per pagare stipendi ai loro impiegati o per chiudere il loro bilancio con un saldo utile, ma devono raggiungere questi giusti fini soltanto col servire nel miglior modo il pubblico”. Penso che Mattioli abbia condiviso totalmente queste parole. A me è capitato di leggerle e commentarle di fronte ad un gruppo di studiosi e operatori di finanza americani, nel 2009. Uno di loro, un giovane dirigente bancario, commentò: “se avessi detto queste cose nella mia banca tre o quattro anni fa, prima dello scoppio della crisi, sarei stato non solo licenziato ma, probabilmente, ricoverato in una clinica psichiatrica. Forse oggi non più, ma verrei comunque emarginato”. Questo approccio illustra meglio di tante parole che non siamo di fronte a divergenze tecniche , ma a diverse concezioni della banca e del suo ruolo, della professione, dell’economia, della vita. Del resto, quale importante banchiere o dirigente bancario attuale potrebbe sinceramente  far proprie le seguenti affermazioni?:

“- (esisteva) l’assoluta contrarietà di Mattioli a sostenere la speculazione di borsa a detrimento dei prestiti alle imprese, anche qualora avesse assicurato una maggiore rimunerazione. Anzi, quando la riteneva deviante, tagliava il volume dei riporti e le altre forme di sostegno creditizio agli speculatori” (Calamanti, pag. 72);

“- il depositante non sembra rendersi conto che la sua protezione più efficace non sono i mezzi propri della banca, ma la sua solidità di giudizio nel concedere crediti” (Mattioli, cit. in Calamanti, pag. 90);

“- bisogna rivolgere maggiormente l’attenzione alle persone che dirigono le aziende, al loro modo di giudicare le situazioni e gli affari, al loro modo di lavorare” (Mattioli, cit. in Calamanti, pag. 176);

“- con un approccio simile a quello di una banca centrale, la Comit manteneva sotto attento monitoraggio lo sviluppo delle proprie erogazioni, quelle del resto del sistema, l’indice della produzione e dei prezzi, e ogni altro indicatore utile per scovare e stimare, a livello aggregato e di singoli settori, eventuali “escrescenze creditizie” e sintomi di inflazione”  ( Calamanti, pag. 206);

“- non appena iniziavano a manifestarsi tendenze devianti, con rialzi ingiustificati, situazioni di eccessiva euforia che rischiavano di trasformarsi in gravi squilibri, la banca doveva intervenire prontamente per evitare, parafrasando Mattioli, che le somme da essa fornite per mantenere lubrificato il meccanismo, si trasformassero in carburante portando il motore a temperature tali da provocarne uno scoppio. L’intervento consisteva nel ridurre e rendere più oneroso il credito alla borsa (essenzialmente i riporti e il tasso sui riporti). Questo anche a costo di dover rinunciare a lauti guadagni  (Calamanti, pag. 208);

“- il credito doveva essere sano; e sano doveva essere l’uso che ne avrebbe fatto il cliente. La posizione della Comit era ferma e risoluta. Le operazioni a carattere speculativo condotte nell’ambito della gestione aziendale e nel caso specifico quelle che potevano interessarla – riguardanti, in primis, le scorte di materie prime e di prodotti finiti – non andavano finanziate” (Calamanti, pag. 209);

“- In verità non è difficile cogliere il suo pensiero dominante, e cioè che l’interesse della banca, principale istituto di credito del Paese, coincide con quello generale. Al servizio della polis, dunque. A ogni piè sospinto e nelle più varie circostanze, Mattioli ribadisce il concetto. Il costante sostegno all’apparato produttivo si deve tradurre in una “promozione” di tutte le classi sociali. La Comit è dunque orgogliosa depositaria di una funzione pubblica”  (Gerbi, op.cit. pag. 160).

 

Anche Calamanti sembra dubitare dell’attuabilità degli insegnamenti di Mattioli quando scrive:

“La lungimiranza nel perseguire l’interesse proprio sta prendendo una direzione il cui orizzonte si va spostando verso un’ottica di profitto che coincide sempre di meno con quella della crescita delle economie locali e del prosperare delle aziende ivi operanti. E questo è un problema assai grave e difficilmente risolvibile. E’, mutuando un’espressione tipica di Mattioli, il problema dei problemi. Ecco dunque perché avevamo affermato agli inizi che il suo pensiero circa il ruolo della banca nei confronti della borsa, è tuttora valido, ma per alcuni aspetti, purtroppo, lo è solo in linea teorica” (Calamanti, pagg. 126-127).

 

“Gli anni antecedenti l’attuale grave crisi finanziaria, caratterizzati da bolle speculative e rigonfiamenti di intensità notevole in molteplici settori, hanno dato prova a iosa di situazioni di febbre e delirio e di operatori che con insania si avventano sulla gallina dalle uova d’oro. Si è trattato di vicende e di esperienze della massima rilevanza, che tuttavia non sembra siano servite, a dovere, da lezione e tanto da indurre cambiamenti radicali nel comportamento di molti operatori. Riteniamo che al riguardo giochi un ruolo importante quanto appena detto in proposito della globalizzazione finanziaria e della progressiva perdita d’identificazione da parte delle grandi banche dei loro interessi, anche di lungo periodo, con quelli delle specifiche economie nazionali o di più ampie aree geopolitiche”. (Calamanti, pag. 127).

 

E’ vero che Gaetano Miccichè, presidente di Banca IMI (Gruppo Intesa San Paolo), ha scritto un articolo (citato in premessa) che ho trovato quasi commovente tanto è intriso di nostalgia e di mancanza di realismo e di autocritica, da concludere con queste parole: “ Crediamo  di aver fatto nostri gli insegnamenti di Mattioli e quotidianamente di contribuire a realizzare ciò che lui definiva “il perseguimento dell’interesse generale”.

 

La verità è che se non otteniamo qualche risultato dalla “ricerca della banca perduta” sarà, comunque, impossibile realizzare gli insegnamenti di Mattioli.

 

Il contesto, il sistema internazionale, i Chicago boys e i loro servitori nostrani non lo permetterebbero. Non si tratta di seguire questo o quell’insegnamento di Mattioli. Si tratta di renderci conto che siamo nei guai, e che il cambio di marcia che dobbiamo fare è molto grosso, ripartendo da quelle poche banche che hanno continuato a fare banca alla Mattioli,  “uno” -per dirla come Carli-  “dei pochi banchieri a non aver ceduto al fascino luciferino della finanza”  (cit. in Calamanti, pag. 101)  e che non hanno seguito i mantra della Banca d’Italia.

 

Con un livello di concentrazione degli attivi bancari assolutamente patologico; con una dissennata politica di penalizzazione delle banche territoriali e minori, le uniche in grado di assicurare il credito ordinario alle PMI; con una altrettanto dissennata distruzione degli istituti di credito industriale a medio termine senza aver preparato qualcosa che li sostituisse in modo adeguato; con una conclamata incapacità degli organi competenti di affrontare le crisi bancarie con la velocità, efficacia ed efficienza che esse richiedono; con una vigilanza confusa contraddittoria e incapace di prevenire le crisi; con una gigantesca perdita di capitale bancario  ed una ancora più gigantesca e dannosa perdita di fiducia dei risparmiatori; con una “governance” globale di sistema, compresa la fumosa Europa, sempre più barocca, burocratica, confusa; con una Banca d’Italia incapace di esprimere una qualsiasi guida per una riforma e aggiornamento del sistema e che si limita a biascicare i suoi soliti due mantra: crescita dimensionale e capitale come “stella polare” delle banche senza elaborare sui due temi alcun pensiero critico basato sulle esperienze fatte; con un approccio ultraservile dei nostri governanti verso qualunque cosa venga da Francoforte o da Bruxelles; noi stiamo marciando in una direzione senza prospettive, come conclude, con grande efficacia, Gabriele Barbaresco, nel suo importantissimo saggio intitolato: “Banche senza mercato o mercato senza banche?”( in rapporto Cesifin, citato in premessa):

“Il regolatore appare in affanno e disorientato: intende spingere oltre ogni limite storicamente sperimentato le dotazioni di capitale e i buffet di liquidità, ma nel farlo spinge gli istituti a negare la natura stessa del proprio business, portandoli ad essere simulacro sempre più fedele di fondi chiusi (finanziati da solo capitale ) e fondi monetari (che investono solo in assets liquidi e di valore certo)”.

 

Stiamo piombando in quello stadio di liquidità statica tanto temuto da Mattioli e comprendiamo ora meglio la sua affermazione dalla quale avevamo preso le mosse: “Più volte abbiamo ribadito in questa sede una verità lapalissiana solo nella formulazione che la banca esiste per fare credito”.

 

Ma anche sul fronte del risparmio bisogna ripristinare il principio della “tutela del risparmio in Italia, che è invece un obiettivo il cui perseguimento non è più rinviabile” come analizza, con grande chiarezza, Paolo Savona in un importante saggio intitolato:  “Lineamenti di una riforma che tutela il risparmio in Italia” (nel rapporto Cesifin citato in premessa). Sempre che non ci si voglia rassegnare a considerare abrogato l’art. 47 della Costituzione. Savona non è rassegnato e conclude affermando:

“In conclusione, se si intende prendere seriamente l’attuazione dell’art. 47 della nostra Costituzione, occorre una grande riforma per uscire da un sistema in cui si illude sia il possessore di mezzi di pagamento d’essere garantito da meccanismi che non hanno questa capacità, sia il risparmiatore che sia protetto facendogli firmare una pila di documenti illeggibili, creati al solo scopo di trasferire su di lui le responsabilità di emittente titoli o autorità di controllo. La grande riforma è quindi prima di tutto culturale”.

 

Quindi la partita è molto complessa e difficile  anche per il micidiale intreccio  tra piaghe nazionali e veleni che vengono continuamente immessi nel sistema dalla finanza internazionale e dalla burocrazia europea.

 

Certamente studiare l’esempio di Mattioli e i suoi principi, pensieri e consigli è molto utile, e per questo siamo molto grati a Calamanti per un lavoro veramente importante, ma non basta. Qui ci vorrebbe un Mattioli in carne ed ossa ed anzi un Mattioli giovane quando, insieme ad altri personaggi di valore, contribuì alla ristrutturazione finanziaria e industriale degli anni ’30, una delle migliori della storia non solo italiana. La ristrutturazione che dobbiamo fare non è di minore impegno di quella degli anni ’30, ma è più difficile perché il soggetto primo da ristrutturare è proprio la Banca d’Italia.

 

Ma Mattioli non c’è più, come non ci sono più gli altri grandi banchieri e governatori della nostra tutt’altro che banale tradizione:  i Menichella, i  Baffi , i  Cingano, gli Arcuti, i Dell’Amore. Non ci sono più e il loro stampo sembra perduto. Qualcuno deve averlo buttato nel lago. Chissà che qualche coraggioso sommozzatore non riesca a ritrovarlo. Ma l’acqua è molto torbida, e dobbiamo aspettare che si depositi e ritorni un po’ più trasparente.
 

 

Marco Vitale - Valfurva, 23 agosto 2017 


 

[1] O, meglio, la loro obiettiva incapacità, in un sistema  globalizzato, di intervenire adeguatamente e di regolare la liquidità della propria area monetaria.

[2] Audizione alla 5° Commissione del Senato (programmazione economica, bilancio, partecipazioni statali) del 20 settembre 1978, nell’ambito dell’indagine conoscitiva sul finanziamento delle imprese industriali in Italia”

[3] Calamanti, dopo aver letto il mo intervento e nello specifico la parte qui in esame, mi ha fatto presente di concordare a pieno con le mie considerazioni, anche per esperienze fatte personalmente, all’epoca, nel campo della formazione bancaria specialistica. Egli ricorda che “i vertici delle banche, fatte le dovute eccezioni, erano in linea generale contrari alla diffusione dei titoli presso la clientela perché temevano che questo avrebbe comportato una riduzione della raccolta.” L’avverbio inspiegabilmente è stato da lui “utilizzato allo scopo di significare che non vi erano ragioni, né per le banche né per altri soggetti, di ritardare un provvedimento indispensabile per l’ammodernamento e per il buon funzionamento del mercato mobiliare e del sistema finanziario. Si è trattato di una grave miopia e di un’incapacità di perseguire, con la lungimiranza di cui era dotato Mattioli, anche i propri interessi.”

[4] Mattioli fu amministratore delegato e poi presidente della Comit dal 1933 (a 38 anni) al 1972. Fu in Comit dal 1925 (a  30 anni) come capogabinetto dell’Amministratore delegato Giuseppe Toeplitz. In tutto quindi 47 anni. Tutti i grandi banchieri sono stati a lungo ai vertici del loro istituto: Menichella, Mattioli, Cuccia, Arcuti,Dell’Amore, perché per forgiare la struttura e il carattere di un istituto di credito ci vuole tempo e ci vuole una guida lunga, forte e coerente.  Riprova che è stato strumentale e demagogico rivolgere l’accusa di troppo lunga durata ad alcuni presidenti di banche popolari per giustificare, anche  con questo infondato argomento, la scassata e distruttiva c.d. riforma delle banche popolari. 

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Commenti (pochi ma qualificati):
- da Gino Luciani: Ho avuto il piacere di conoscere Marco Vitale, così come il suo omonimo, Guido Roberto, grandi amici ed estimatori della Comit e dei suoi uomini, come traspare da questo impareggiabile commento al libro di Andrea Calamanti. Argomentando sui temi principali trattati nel libro, Marco Vitale descrive come meglio non si potrebbe, le grandi intuizioni e gli insegnamenti che Raffele Mattioli ha saputo trasfondere in tutte le generazioni di uomini Comit che sono venuti dopo di lui: il modo corretto di fare credito, di come rapportarsi con la clientela, di come formare i quadri dirigenti, di come alimentare e mantenere lo spirito di appartenenza, di come essere sempre autonomi e intransigenti nelle decisioni e nel delineare le strategie, di come mettere sempre al centro l’uomo. Intuizioni e insegnamenti che tutti noi abbiamo cercato di fare nostri guadagnandoci, come dice Marco Vitale, stima e considerazione nel mondo delle banche e non solo. La conclusione piuttosto amara del suo commento "E ora?" impressiona per la lucidità della descrizione della situazione attuale delle banche, per la giusta critica che fa agli organi preposti, per le poche speranze di vedere apparire un novello Mattioli.

- da Renzo Saitta: Finalmente il Prof.Marco Vitale è riuscito a condensare in poche pagine che avrebbero potuto essere anche più numerose la vera anima della Comit. Raffaele Mattioli è stato un grande banchiere e la Comit viene definita in allora la migliore banca,non solo italiana. A mio giudizio Mattioli ha cambiato il Dna dei dipendenti Comi:t: serietà, professionalità, spirito d' appartenenza. La nostra è sempre stata una banca corporate e ha nei periodi bui della nostra economia fornito all'aziende aiuto ma non sconsiderato ma sempre basato sui fondamentali di un bilancio sano. Le cose sono mutate dopo la privatizzazione della banca. Prima c'era l'IRI che a mia memoria non ha mai influito politicamente sugli organi decisionali, salvo la parentesi di Stammati, duranta,peraltro poco. Dopo il 1993 è cambiato molto siamo anche diventati anche una banca d'affari, commettendo errori quali i derivati ed i famosi veicoli dove venivano appostati i rapporti non proprio brillanti. Faccio i complimenti al Prof Marco Vitale che ho avuto la fortuna di conoscere per le pratiche in ristrutturazione Sci,Binda ed altre .Merito ad Alfredo di aver inserito sulle pagine di Piazza Scala il commento del già citato Prof. Vitale al libro di Andrea Calamanti.