Sono a prova di hacker e le vogliono ancora i servizi segreti, sono state fedeli compagne di scrittori e giornalisti e colonna sonora della vita di tanti nell’era predigitale: un piccolo museo milanese dove ammirare le macchine da scrivere e scoprine la storia lunga e affascinante, che comincia alla fine del ‘500 a Venezia e arriva al 2011 in India quando chiude l’ultima azienda che le produceva, la Godrej & Boyce

 

di Saverio Paffumi

 

Senza smartphone, senza pc o senza Ipad non potremmo più vivere, ma quello che ci fa battere il cuore è il contenuto con le sue connessioni, non il contenitore, non la “macchina”. Chiunque abbia vissuto di scrittura o l’abbia fortissimamente praticata prima dell’avvento dell’era digitale sa cosa vuol dire, invece, essere stati innamorati della propria macchina da scrivere, cui è dedicato a Milano un piccolo e curioso museo che ha appena compiuto dieci anni di vita.

Forte, solida, mai obsoleta, perciò immutata per decenni, fedele compagna di tante avventure sintattiche a casa, in studio o – portatile – in giro per il mondo, più longeva della pur nobilissima penna, che si smarrisce o si logora facilmente, più affidabile, precisa e veloce di qualsiasi altro strumento inventato prima di lei per mettere le parole nero su bianco. Non è stato sempre così, perché perfino nelle mani dei loro stessi inventori i primi prototipi erano molto lenti e piuttosto fragili. Tuttavia la possibilità di scrivere perfettamente a casa o in ufficio, senza ricorrere a una tipografia, sedusse ben presto il mondo alle prese con la prima grande rivoluzione industriale.

Prima ancora di conquistare gli scrittori e – mai del tutto – i poeti, il suo inconfondibile ticchettio diede vita a quella specie di foresta sonora che caratterizzava le grandi mitiche redazioni dei giornali, i grandi uffici delle aziende e delle cancellerie, le vaste sale delle ragionerie e del pubblico impiego. A volte era accompagnato dallo sferragliare e dallo scampanellio di altri piccoli gioielli meccanici che si occupavano dei numeri: le calcolatrici. O da macchine che replicavano la battitura a distanza, le telescriventi. O ancora da macchine molto più grandi, che i caratteri li mettevano in riga impilandoli in colonne di piombo: le linotype.

A metà del Novecento, non era possibile immaginare un luogo raggiunto da una qualche forma di civiltà moderna, nei cinque continenti, che non esibisse, su qualche scrivania o tavolino, una macchina da scrivere, fissa o portatile che fosse. Dai grattacieli di New York e Chicago alle capitali africane, dall’Europa alla Cina, dai paesi arabi ai palazzi indiani: tic tic tic toc tac frrrr, tic tic tac, senza rendercene conto, per molte generazioni, abbiamo avuto questa colonna sonora futurista. Il tasto, il tasto, il tasto, la leva, il rullo che gira, lo spazio, la pagina di carta che vien via, l’altro foglio che vien messo dentro, e avanti così.

Ora quella foresta di rumore non c’è più, si è estinta e il silenzio s’è fatto quasi totale, rotto soltanto dagli avvisi sonori lanciati ad ogni messaggio dagli smartphone, e dalle suonerie musicali che hanno sostituito gli squilli dei vecchi telefoni. Perfino l’impercettibile fruscio dei tasti dei pc si va zittendo, per fare largo al felpato incedere delle parole digitate sul touchscreen. L’epitaffio del Corriere della Sera è pubblicato il 26 aprile del 2011: “Nei giorni scorsi ha chiuso i battenti in India la Godrej & Boyce, l’ultima azienda al mondo che produceva macchine per scrivere”.

In questo mare improvviso di silenzio è sempre dolce il naufragare della scrittura, ma se non vi fosse un museo della macchina da scrivere, a questo punto bisognerebbe inventarlo, per spiegare a chi non c’era quanto grande sia stata la rivoluzione, a vista d’occhio e ancor più a portata d’udito.

In questi giorni di celebrazione dei dieci anni di vita, il museo ha mostrato i suoi pezzi migliori, che consentono un eccellente excursus dalle origini alle ultime macchine andate in pensione. Lo si deve alla tenacia di un collezionista appassionato, Umberto Di Donato, ragioniere classe 1935, che da quando saper scrivere a macchina gli rese più lieve il servizio militare giurò eterna riconoscenza al prezioso strumento. Nell’arco della sua vita si è fatto una posizione in banca, ha formato una famiglia, poi ha raggiunto gli anni della pensione, senza mai smettere di cercare e trovare modelli antichi e contemporanei, di ricevere donazioni, di approfondire le proprie conoscenze. La metodica precisione del ragioniere al servizio di un’ossessione degna di un artista: più che un hobby, a poco a poco per Di Donato è divenuta una missione. Comprati i locali, nel 2006 ha aperto il museo di via Menabrea. Dieci anni dopo, come tante volte capita in Italia, la prima domanda che ci si pone appena entrati è:«Ma è mai possibile che un tale patrimonio non abbia trovato una valorizzazione migliore, una sede istituzionale degna, spazi adeguati?» e poi si è presi da un’ammirazione sincera per l’eroico volontariato di un ottantenne che ha ancora tutte le energie che servono per custodire, catalogare, presenziare a mostre in giro per l’Italia, divulgare nelle scuole, ricevere gruppi e condurre piccole visite guidate.

Non potrebbe che scrivere, Umberto Di Donato. E infatti ha pubblicato vari libri, con piccoli editori. In La penna, il tasto e il mouse, (edizioni EDB, in vendita al museo) racconta tutto quel che si sa sulla macchina, a partire dalle incerte origini che vedono più “inventori” in vari paesi, alcuni dei quali finiti su un binario morto, senza esiti commerciali. Dal primissimo congegno del tipografo ed editore veneziano Francesco Rampazzetto (1575) a un primo brevetto inglese (Henry Mill, 1714) per un dispositivo di cui però si persero le tracce. Ben documentata invece la macchina realizzata da Piero Conti di Cilavegna, nel 1823. Nella metà del secolo un altro italiano, Giuseppe Ravizza mette a punto un modello di “Cembalo scrivano”, mentre dall’altra parte dell’oceano è un giornalista americano poi divenuto senatore, Christopher Latham Sholes, a studiare su una macchina di sua ideazione, una disposizione dei tasti più funzionale, in modo che le leve dei caratteri più utilizzati non fossero a contatto tra di loro, inceppandosi continuamente. Così nacque una tastiera con un ordine delle lettere non molto diverso da quello che è arrivato fino a noi, fino alle tastiere dei computer. Fu un’industria bellica statunitense, la Remington, a intuire per prima le potenzialità commerciali della nuova invenzione e a produrre i primi mille esemplari a partire dal 1874. Veniva chiamata Qwerty, dalla sequenza delle prime sei lettere da sinistra…ed è ancora la stessa sequenza che trovo adesso, scrivendo questo articolo sul mio Mac. Suppongo sia uguale sull’I-phone: e infatti lo è. L’invenzione di Christopher Latham Sholes è nel DNA dei dispositivi punto zero, anche se i tasti non hanno leve, o addirittura non esistono più!

La Qwerty non aveva le maiuscole e scriveva “alla cieca”, perché il carattere batteva sotto il rullo e non di fronte: gli eventuali errori di battitura si scoprivano via via che le righe apparivano sul foglio, quando il rullo girava. La Remington sulle prime rifiutò il brevetto di un ingegnere di origine tedesca, Franz Xavier Wagner, che aveva risolto il problema, così fu una ditta concorrente, la Underwood, a produrre modelli più avanzati, come il leggendario numero 5, che nei successivi trent’anni avrebbe venduto milioni di pezzi in tutto il mondo, inaugurando l’epopea della produzione industriale e della diffusione via via sempre più capillare.

È quello lo scenario che incontra in America Camillo Olivetti nel 1882, quando al seguito del suo insegnante Galileo Ferraris partecipa a New York alla prima dimostrazione di illuminazione pubblica, ad opera di Thomas Alva Edison. Conquistato dalle nuove invenzioni, non solo dalla lampadina di Edison, Olivetti rimase due anni nel reparto di ingegneria elettrica dell’Università di Stanford e in un certo senso negli anni successivi fece il “giapponese”, portando in Italia la produzione di strumenti di misura e poi di macchine da scrivere. La prima Olivetti viene presentata all’Esposizione universale di Torino, nel 1911.

L’uso sempre più massiccio, da parte di professionisti della scrittura che per lavoro si muovevano, a cominciare dai giornalisti, spinse ben presto le case produttrici a creare le macchine portatili, piccole e compatte, con le loro valigette. Nel frattempo era nato un lavoro prevalentemente femminile, che se nel lungo periodo, alle soglie dei giorni nostri, è stato vissuto come una “gabbia”, alle origini rappresentò una delle prime occasioni di emancipazione dai totalizzanti “obblighi” domestici. Come fa notare Umberto Di Donato la prima dattilografa fu a tutti gli effetti la figlia del senatore Latham Sholes, cui il padre affidava il collaudo dei prototipi.

Il resto del racconto possiamo considerarlo storia recente fino a qualcosa che potrebbe riguardare il futuro: negli ultimi anni i servizi segreti di vari paesi, a cominciare da Mosca, hanno ordinato un certo numero di macchine, dato che a differenza dei computer, sono a prova di hacker (come certi mafiosi hanno sempre saputo).

Mark Twain è considerato il primo scrittore che si convertì all’uso della nuova macchina, una Qwerty, appunto, con cui creò il manoscritto (o per l’esattezza dattiloscritto) del Tom Sawyer, pubblicato nel 1876. Da allora in poi, soprattutto nel Novecento, è difficile immaginare un grande scrittore, o un grande giornalista, senza la “sua” macchina da scrivere. A questo link troviamo una nutrita serie di abbinamenti, dalla Royal di Simenon  (foto) alla Olivetti Lettera 22 di Indro Montanelli e Pasolini, la Hermes Baby di Hernest Hemingway,(foto) la Royal Portable di George Orwell, la Remington Portable No. 2 di Agatha Christie, la Smith Premier 10 di Jack London, la Underwood Standard di Charles Bukowski, Jack Kerouac, Virginia Woolf e Francis Scott Fitzgerald. E altre ancora.

Nel Museo di Milano si trovano i pezzi originali appartenuti a due miti del giornalismo, due donne: Matilde Serao (foto) e Camilla Cederna (foto), c’è una delle Olivetti usate in ufficio da Francesco Cossiga, ve ne sono altre di personaggi importanti, ma meno noti. E ci sono i modelli identici a quelli che hanno fatto la storia del giornalismo e della letteratura, i pezzi più antichi e arcaici, quelli “monotasto” o con le prime “palline” rotanti, che poi saranno alla base dei modelli elettrici più recenti. Umberto ha raccolto una messe di informazioni sterminata e lui stesso, oltre a scrivere, può parlarne per ore. C’è una macchina cinese degli anni Venti, con una infinità di ideogrammi e una cassetta di legno con altri di riserva (foto); c’è una macchina che scrive in arabo… e c’è la macchina della Barbie. C’è il disco con la voce di Mario Soldati che nel ruolo di speaker impartisce una lezione di dattilografia destinata a chi acquistava le prime Lettera 22, negli anni Cinquanta: “Musica per parole”, disco di vinile a 33 giri. E ci sono anche numerose calcolatrici meccaniche, le parenti strette che militavano negli stessi uffici, negli stessi anni.

In Italia l’unico altro museo dedicato alla macchina da scrivere si trova in un luogo apparentemente improbabile, a Parcines, un paese dove si parla tedesco, non lontano da Merano. In quel paese del Sud Tirolo nacque, nel 1822, Peter Mitterhofer, falegname e carpentiere che per suo conto negli anni Sessanta del suo secolo si applicò alla ricerca per la realizzazione di una macchina per la scrittura. I suoi primi modelli erano di legno, ma arrivò a realizzare anche prototipi in metallo, come la Merano 1866 e la Vienna 1869. Qualcuna di queste macchine fu venduta, una fu regalata all’imperatore Francesco Giuseppe, ma in Europa era ancora lontana la possibilità di una produzione su larga scala, così Mitterhofer si arrese e lasciò perdere il progetto che avrebbe anticipato di quasi trent’anni il successo della Underwood Typewriter di New York. Parcines, oltre un secolo dopo la sua morte (1893) gli ha dedicato il museo che dal 1998 consente di apprezzare alcuni prototipi di Mitterhofer e altri pezzi rari che via via si sono aggiunti.

Lungi dall’esserne “geloso”, Umberto Di Donato, nel suo museo milanese, dedica un angolo a Merano e Parcines e nel suo libro racconta l’avventurosa vita del pioniere altoatesino.

Il paradosso italiano, in tutta questa storia, è che non è bastato un secolo abbondante per trovare un sostantivo che traducesse typewriter. E chi usava “macchina da scrivere”, di gran lunga l’espressione più usata nel linguaggio parlato, trovava sempre qualcuno che correggeva con ineccepibile puntiglio: “per” scrivere, non “da”. Ma tant’è quel “per” è sempre sembrato forzato e un po’ lezioso. Ora anche l’Accademia della Crusca consiglia il “da”, pur non condannando il “per”. Insomma buone notizie per il signor Umberto: il suo museo non deve cambiare nome.

 

 

Museo della macchina da scrivere Via G.F. Menabrea, 10 20159 Milano tel. 347.8845.560  Aperto martedì, venerdì e sabato, dalle ore 15 alle ore 19. Sempre aperto per visite di gruppo su prenotazione


 

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piazzascala.it - aprile 2016