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IL CENTENARIO DI CAPORETTO


 

Quando ero un ragazzo, dalla scuola e dall'opinione comune, condivisa in parte anche nella mia famiglia, fui sistematicamente bombardato dal mito della grande vittoria nella prima guerra mondiale, "la Grande Guerra" come si diceva. La decisiva resistenza sul Piave che evit0' il dilagare degli austro-tedeschi nelle pianure lombardo-venete dopo la pesante disfatta che prese il nome da Caporetto e il mito della vittoria finale di Vittorio Veneto sulle ormai esauste armate nemiche oscuravano la tragedia rappresentata dalla guerra in se stessa, la sua sostanziale inutilita', le fatali conseguenze per il paese e per milioni di italiani, l'avvento del Fascismo e del funesto ventennio, con le sue guerre di aggressione, Etiopia, Spagna, Albania ,Grecia, Francia, Jugoslavia. Soltanto gradualmente gli storici, la grande stampa e buona parte dell'opinione pubblica, giunsero a un'analisi piu' approfondita e piu' spassionata di quell'avvenimento e, con esso, di tutta la storia italiana contemporanea dall'Unita' in poi, con le sue avventure belliche sfortunate. E' ormai noto che l'entrata in guerra, nel 1915, era osteggiata da una parte maggioritaria della classe politica e degli italiani, che fu decisa dal governo liberal-conservatore e dalla corona senza l'approvazione del Parlamento che fu coinvolto a cose fatte. L'opinione pubblica e lo stesso governo furono trascinati dalle rumorose minoranze interventiste fra le quali spiccarono nazionalisti, futuristi ed ex socialisti rivoluzionari fra i quali il Mussolini convertito da poco all'interventismo nazionalista, e la bellicosa Casa Savoia. Non valse il ricordo delle varie guerre concluse malamente, dal 1848 al 1849 al 1859, al 1866, quando ci misero una pezza rispettivamente i francesi e i tedeschi, della disastrosa avventura coloniale in Eritrea del 1898. Non valse la fama negativa dei nostri generali, la scarsa combattivita' di gran parte dei poveri coscritti, ignoranti della causa nazionale e comunque delle ragioni per le quali erano chiamati a sacrificarsi. Dal 1914 Giovanni Giolitti, i moderati, i socialisti e la chiesa furono subito contrari all'entrata in guerra, anche con l'argomentazione che la neutralita' ci avrebbe consentito di ottenere gli stessi vantaggi territoriali per i quali si voleva combattere, contro gli alleati del giorno prima nella Triplice Alleanza e stracciando il relativo trattato. Caporetto fu la logica conseguenza di tutta quella fase storica. Una sconfitta rovinosa maturata anche nei due anni terribili di trincea nel fango, di privazioni, di strategie sbagliate, di impreparazione morale e materiale, nelle carneficine delle dodici battaglie frontali sull'Isonzo, volute caparbiamente dal Capo di Stato Maggiore Luigi Cadorna. Era il 24 ottobre 1917, alle due del mattino. Forti contingenti di truppe austriache, rinforzate da reggimenti scelti tedeschi, in parte ritirati dal fronte orientale dopo la rivoluzione russa, nei quali erano presenti ungheresi, sloveni, croati e perfino sudtirolesi del trentino, bene equipaggiati, motivati e addestrati anche alla guerra di montagna, attendevano l'inizio dell'attacco previsto per le 8, preceduto per ore dal furioso bombardamento di mille cannoni e bombarde, mentre Cadorna era convinto che si trattasse di un diversivo per coprire un'ennesima offensiva sul fronte dell'Isonzo. Il nemico aveva concentrato invece le sue truppe scelte fra Plezzo e Tolmino e la strategia fu quella dell'aggiramento delle postazioni italiane, non coperte dall'artiglieria. Fin dall'inizio le linee italiane attestate sui vari colli con nomi slavi, ignare di quanto stava accadendo anche a causa della generale interruzione delle comunicazioni telefoniche, si arresero dopo scarsa resistenza o addirittura, in molti casi, senza combattere, anche se non mancarono episodi di singolo eroismo. Gli austro-tedeschi conquistarono ad una ad una le posizioni italiane sui monti e nei canaloni sottostanti e dilagarono nelle vallate, con perdite limitate. Le truppe attaccanti erano provate da mesi di fame e di stenti e riuscirono perfino a rifocillarsi con le vettovaglie catturate agli italiani. Le artiglierie italiane al comando del generale Badoglio, il futuro Maresciallo d'Italia, non intervennero se non a cose fatte e le inchieste non arrivarono mai a chiarire le responsabilita' del comandante. Badoglio, lungi dall'essere perseguito per tale gravissima inazione, fece addirittura una rapida carriera appoggiato dalla Corona e poi dal Regime fascista. Il disastro fu grande anche perche' molti reparti, pensando che la guerra fosse finita, in un modo o nell'altro, abbandonarono le posizioni e comincio' una ritirata disordinata. Lo Stato Maggiore ordino' le decimazioni e molti furono gli incolpevoli soldati passati per le armi sul posto. Il Capo di Stato Maggiore Cadorna, con i suoi generali, era responsabile della condotta tragicamente sbagliata della guerra, ma non trovo' alcuna giustificazione se non quella di accusare, in un bollettino diramato a caldo, di vilta' i suoi soldati, ma fu immediatamente sostituito dal Generale Armando Diaz che riusci a ricompattare l'esercito, rianimarlo e porre le premesse per la resistenza sul Piave e la successiva riscossa. Anche Vittorio Emanuele III, il "re soldato", che aveva posto il suo quartiere generale nelle retrovie del fronte, non fu esente da colpe, nella sua qualita' di Comandante Supremo delle Forze Armate, ma le accuse nei suoi confronti furono soffocate sul nascere. E' trascorso un secolo da allora, ma la ferita nella nostra storia non si e' rimarginata.

Giacomo Morandi (Rivergaro)


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piazzascala.it - ottobre 2017