La Banca di Raffaele Mattioli - una visione unitaria e sistemica
un libro di Andrea Calamanti

Il Prof. Andrea Calamanti, docente  di Economia del Mercato Mobiliare e di Economia delle Aziende di Credito presso l'Università di Ferrara, ha scritto nel 2016 il libro "La Banca di Raffaele Mattioli", figura "leggendaria" per tutti gli ex Comit che l'hanno conosciuto personalmente o quantomeno per sentito dire: sicuramente il più grande banchiere italiano.
Oggi, in presenza di crac bancari che con lui non si sarebbero verificati, è di estrema attualità il suo pensiero, ricordato a più riprese,  "La Banca è un’impresa sui generis, che porta un’enorme responsabilità sulle sue spalle. Le sue cautele non sono mai troppe, i suoi errori sono sempre troppo gravi. La sua azione deve essere audace e cauta insieme, legata alla realtà di oggi, ma in armonia alla prevedibile realtà di domani".
Il Prof. Calamanti non si sofferma sulla figura di Mattioli umanista e mecenate, che pure ebbe una grande importanza nel panorama artistico del nostro paese: preferisce vederlo come sopraffino teorico di banca e nello stesso tempo iniziatore della banca moderna, che avrebbe dovuto evolversi, dal mero finanziamento del circolante, come propulsore dell'economia industriale. In tale prospettiva creò Mediobanca nel 1946 ponendovi a capo il suo allievo Enrico Cuccia, che - pur mantenendosi indipendente dal suo "maestro" - contribuì in modo straordinaria alla ricostruzione delle aziende nel periodo post bellico.
Scrive infatti Calamanti: ".....mirato a mettere in luce la figura di Mattioli quale banchiere e teorico di banca e a dimostrare che le sue idee hanno sempre precorso, di anni, la migliore dottrina e sono ben più complete e profonde..... le mie materie di studio e di insegnamento sono la banca e la finanza e si può ben capire qual'è stato il mio approccio. Era questa, credo, una parte di Mattioli rimasta piuttosto in ombra, forse perchè ci sì è fermati soprattutto sul poliedrico "umanista". Mentre sono convinto che la sua insuperabile grandezza sia proprio da ricercare nella sua figura e opera di Banchiere e, ripeto, di insuperabile teorico di banca..... La mia speranza, e forte desiderio, è che si torni a ricordare (molti non sanno più chi sia) Mattioli e se ne apprezzi la statura: oggi più che mai, ve ne è un gran bisogno: siamo agli antipodi e purtroppo gli attuali addetti ai lavori non credo abbiano desiderio e capacità di andare a scuola da lui!".
Di seguito riportiamo l'interessantissima recensione al libro di Tancredi Bianchi, ex Presidente ABI e figura di spicco nel contesto economico italiano:

"""1. La figura di Mattioli
L’invito di dire di Raffaele Mattioli, un banchiere che ebbi la fortuna di incontrare, di ascoltare, e che mi concesse la possibilità di scambiare opinioni, mi ha molto lusingato. Lo debbo all’offerta del collega Calamanti di partecipare alla presentazione della sua bella monografia: La banca di Raffaele Mattioli. Una visione unitaria e sistemica, che mi fece leggere prima della stampa. Sono debitore anche verso i congiunti, che hanno accolto il suggerimento di Andrea di concedermi l’onore di parlare in questa sede, e alla Banca Intesa-San Paolo che ospita l’incontro.
Raffaele Mattioli si affermò, come banchiere, dopo:
- la grande crisi economico-finanziaria (1929-1933) del secolo scorso;
- i conseguenti salvataggi della Comit e del Credito Italiano, seguiti a quello del Banco di Roma;
- la costituzione dell’Iri, che divenne l’azionista di quelle tre banche, definite poi di «interesse nazionale».
Fu collaboratore molto capace e di alta professionalità, insieme con Giovanni Malagodi, di Toeplitz, cui succedette al vertice operativo della Comit. Di solito, la scuola da cui si proviene lascia un sigillo sul nostro modo di pensare e di agire. Raffaele Mattioli ha dimostrato di essere un banchiere di alto valore per avere ben capito gli errori di quella scuola, oltre che a non rinunciare a, e a non dimenticarne, i giusti insegnamenti. L’intelligenza, e la lettura corretta, della lezione dei fatti furono un primo pregio della sua notevole personalità.
Se bene comprendo gli avvenimenti di quel tempo, anche per merito della lettura delle pagine di Calamanti, l’errore fondamentale della gestione di quelle che saranno poi le tre Bin, fu il discostarsi dall’essere intermediari, aumentando il grado di impresa in proprio, ossia di investitori. Tutto, negli anni successivi e fino alla fine della vita, prova che Raffaele Mattioli – e in ciò si contrappone all’esperienza di Toeplitz – credette fermamente che la banca sia un’azienda di intermediazione, e tale debba sempre essere. Ciò anche se, per favorire la finanza delle imprese clienti, fosse necessario detenere per qualche tempo, titoli di credito da esse emessi.
Egli capì che la Comit, nonostante la cessione all’Iri delle partecipazioni azionarie, sarebbe rimasta con l’impronta della «banca mista», almeno fino a quando le imprese italiane fossero passate da una finanza fondata sui debiti verso gli intermediari a una basata su passivi di mercato. Il che esige un salto delle dimensioni aziendali e pure culturale – dei proprietari e del management delle aziende – quanto alla
scelta delle coordinazioni finanziarie ed economiche di gestione, possibile con il superamento del capitalismo familiare, e richiede pure norme di politica economica, che indirizzino verso tale mutamento e lo possano stimolare.
Il secondo conflitto mondiale segnò un tempo di interruzione della ricercata modernizzazione finanziaria delle imprese e l’accrescersi di problemi nelle condizioni di equilibrio delle banche. Non di meno, ritrovate le condizioni della pace, Mattioli riprese il fil rouge del proprio pensiero e si impegnò nella costituzione della Banca di Credito Finanziario, a tutti nota come Mediobanca, che avrebbe dovuto incidere nel concretare il passaggio a una finanza delle imprese fondata su passivi di mercato. Tornerò su questo punto.
2. La liquidità statica e dinamica
Per rispettare le norme della nuova disciplina italiana (1936) dell’attività bancaria e, nel contempo, gestire una banca mista, di credito ordinario e finanziario, Mattioli elaborò una acuta analisi sul tema dell’equilibrio monetario della gestione di un’azienda di credito, distinguendo tra liquidità statica e dinamica. Quest’ultima trova fondamento nell’intreccio delle operazioni di versamento e di prelevamento
sui conti della clientela, sia di raccolta sia di prestito, ossia sia depositante sia affidata. Quello che in Comit era qualificato come velocità di rotazione delle relazioni di clientela e che Mattioli definì, anche, il numero delle pulsazioni del cuore della banca.
La quota di credito finanziario deve essere coerente:
a. con l’inserirsi della banca nel sistema dei pagamenti delle aziende affidate e nella generazione di mezzi monetari originata dalla gestione di esse;
b. con la consistenza stabile della raccolta, oltre che
c. con la movimentazione dei conti relativi.
Certo, l’inflazione post-bellica, determinata dalla scelta, in politica economica, della via finanziaria allo sviluppo e dall’accrescersi del debito pubblico e della base monetaria circolante, agevolò le condizioni formali di equilibrio della banca mista. Tuttavia Mattioli avvertì di operare con una carenza del capitale di rischio, cioè di capitale proprio, che l’Iri fu restia a conferire, o non ne fu in grado.
3. Il capitale proprio: nucleo dell’atomo
Capitale proprio che Egli amava definire come il nucleo dell’atomo di ogni attività produttiva, che avrebbe consentito di accettare il grado di immobilizzo di taluni attivi di una banca mista. E qui torna la lezione della crisi della fine anni Venti del secolo scorso. Vi sono attivi di una banca, come tipicamente le partecipazioni – oggi si aggiungerebbe: giudicate strategiche – in altre imprese, che per natura non danno luogo a flussi di entrate e di uscite, ma di norma a un’entrata annuale rappresentata dai dividendi. Il che significa un investimento durevole, in proprio, non in armonia con le condizioni di liquidità dinamica dei passivi che hanno complessivamente finanziato l’investimento, il quale potrebbe anche indicare la possibilità di plusvalenze latenti, che però non si vorrebbero tradurre in moneta, giacché
quel collocamento è reputato strategico. Sì che se quelle condizioni di liquidità dinamica flettono il mantenimento dell’investimento di cui si tratta diviene problematico e sollecita altre scelte finanziarie, spesso rischiose e non risolutive.
Una crisi generale del sistema economico circostante, poi, diviene fatale per gli equilibri di gestione. Anche a motivo che l’investimento in discorso manifesterebbe le proprie caratteristiche di immobilizzo, e potrebbe allora, forse, essere liquidato solo a prezzo di perdite di valore. Pertanto, anche la banca mista, di credito ordinario e di credito finanziario insieme, deve rifuggire da partecipazioni non idealmente
finanziate con mezzi di diretta pertinenza, in aggiunta a quelli giudicati adeguati per l’intermediazione creditizia.
Non di meno, non può rinunciare a favorire il passaggio delle imprese affidate a una finanza rivolta al mercato e, in questa azione di promozione, non può evitare di sottoscrivere securities, sul mercato primario – non fosse altro che per la partecipazione a sindacati di collocamento e di garanzia –. Attivi da ricollocare nel più breve tempo, possibilmente senza oneri ma con vantaggi economici, sul mercato secondario. Per questo la necessità di un plus di capitali propri, grandezza sulla quale la Comit di Mattioli non potette fare affidamento.
4. La nascita di Mediobanca
Di qui la scelta di dare vita, appena le condizioni di contesto lo permisero, come sopra detto, alla Banca di Credito Finanziario, che chiamerò anch’io per comodità Mediobanca.
Istituto in grado di operare, pro tempore, anche nel campo del credito mobiliare, possibilmente con la cooperazione di altri partecipanti, investitori istituzionali e intermediari creditizi e finanziari, ai sindacati di collocamento e di garanzia.
L’ostacolo da superare, in tale disegno, è che i richiedenti tali forme di sostegno finanziario siano già aziende quotate o pronte a una prossima quotazione, per potere fare affidamento su un mercato secondario dei titoli emessi. E al riguardo, sia per la cultura prevalente di capitalismo familiare, sia per le dimensioni delle nostre imprese, anche Mediobanca troverà molti ostacoli nell’azione di modernizzare la
finanza delle aziende di produzione. Sarà soprattutto la banca d’affari delle imprese già quotate. Con in più un legislatore lento, se non quasi sordo, a capire il problema. Che non solo non fu risolto con Mattioli ancora vivente, ma è irrisolto ancora al presente. La public company, ossia una società quotata con azionariato diffuso, resta quasi estranea alla realtà italiana, che vive i problemi della globalizzazione con un mercato mobiliare alquanto modesto.
Mattioli intuì che i mercati monetari e finanziari volgevano all’integrazione. Del resto la sua Comit era, a quel tempo, la banca italiana più significativamente presente al di fuori dei confini nazionali. Ma capì anche che lo sviluppo italiano, finanziato con crescenti dosi di disavanzi pubblici, si sarebbe a un certo punto arrestato, giacché il limite della cosiddetta «via finanziaria allo sviluppo», come aveva imparato dalla lezione dei fatti del 1929-1933, si raggiunge allorché i nuovi debiti servono quasi solo per ripagare quelli in scadenza. Quando il «cane», insomma, finisce per mangiarsi la coda. L’arresto della crescita avrebbe potuto essere contrastato con una maggiore partecipazione alla economia internazionale.
E, classe politica coadiuvando, la sua Comit avrebbe potuto svolgere un ruolo di primo piano.
Le leggi della vita terrena lo tolsero dalla scena nella prima parte degli anni Settanta (1973) della scorso secolo, lasciando in eredità una cultura nel dominio della economia della banca, che non va dimenticata, e che la monografia di Calamanti ci richiama alla mente.
Sì che possiamo legittimamente chiederci quale sarebbe stato il suo pensiero al proposito dell’esperienza oggi in atto.
5. Il portafoglio titoli
L’enorme debito pubblico italiano, già ai tempi del Nostro, trovava sostegno nei portafogli titoli di proprietà delle banche.
Egli sapeva benissimo che non appena si giunge alla condizione per cui le nuove emissioni, in altissima proporzione, sono destinate a sostituire i valori che giungono via via a maturazione, anche i titolari del classamento di quei valori sono quasi costretti, dalle condizioni in atto, a reinvestire la liquidità, derivante dal rimborso di titoli in portafoglio giunti a scadenza, nei valori di nuova emissione. Non solo, ma pure il mercato secondario dei valori già in circolazione, man mano che aumenta la consistenza del debito complessivo dell’emittente diviene meno stabile e meno efficacemente liquido se si accrescesse, in proporzione significativa, il flottante di negoziazione. In conclusione: in presenza di condizioni prossime, quanto meno, alla necessità di una ristrutturazione del debito sovrano di uno Stato, aumenta il grado di immobilizzo del portafoglio titoli di una banca, collocato in quei titoli di debito in proporzioni più alte di quelle richieste dalla gestione dell’equilibrio monetario della banca stessa. Gestione che fa affidamento su un attivo, di norma fruttifero, prontamente liquidabile sul mercato mobiliare, non distinto da alta volatilità di prezzo. Si possono ampiamente giustificare le banche, imprese sensibili e disciplinate in ordine a circostanze socio-economico- politiche, se assicurano un classamento stabile a una quota importante del debito sovrano circolante nell’area nazionale dei rapporti di clientela, ma necessita riconoscere che dalla circostanza non consegue un miglioramento delle condizioni di liquidità dinamica delle stesse banche. Credo, pertanto, che la lezione degli anni della crisi della Comit farebbe ancor oggi scrivere a Raffaele Mattioli, come già al proposito dei «vincoli di portafoglio», che le banche non debbono effettuare investimenti in titoli che l’emittente non saprebbe collocare se non a condizioni assai più onerose e incerte. Riflettendo su tali aspetti, si può meglio comprendere il suo motto, giudicato sovente solo come espressione di humour, al proposito delle cartelle fondiarie, qualificate
«banconote con cedola», giacché stabili nelle quotazioni di mercato. Il quale era reso, per altro, liquido a quei prezzi dagli acquisti e dalle vendite della banca controllante l’emittente, o a capo della divisione operativa che emetteva i titoli di cui si tratta. Non appena il rendimento di essi fu fuori mercato, per effetto di un aumento generalizzato dei saggi di interesse, la banca che ne difendeva la stabilità delle quotazioni si trovò ad accumulare un investimento immobilizzato, così divergendo dal business di ente intermediario. Un ripetersi, in nuovo aspetto, di antichi errori, che il Nostro conobbe.
A mio sommesso parere, se Raffaele Mattioli partecipasse oggi al dibattito in corso, in ordine all’assorbimento, ai fini della vigilanza prudenziale, di quote di capitale proprio se una banca supera una certa soglia di portafoglio investito in titoli di debiti sovrani, e in particolare del debito sovrano della Stato in cui opera, non sarebbe intellettualmente, nel proprio intimo, dalla parte in cui oggi le banche interessate si pongono. L’inopportunità di fatto di una norma di vigilanza prudenziale non basta a giustificare una scelta di collocamento di fondi in guisa non corrispondente e coerente con la natura della banca di impresa intermediaria. Pure se la scelta fu, in concreto, quasi «a trama obbligata».
Insomma, nel pensiero di Mattioli, giustamente, un portafoglio di titoli pubblici di proprietà della banca non dovrebbe andare oltre le funzioni di buffer di liquidità. Non sarebbe giustificato se infruttifero. Ancor più se con rendimenti negativi, giacché la linea dello zero segna il frutto della disponibilità di cassa.
6. La remunerazione del capitale
Queste osservazioni ci consentono di porre in evidenza un altro punto. Mattioli giudicò con severità le divergenze di remunerazione dei fattori produttivi, rispetto a ideali proporzioni di equilibrio. Quelle discrepanze – determinate da scelte di politica economica, fiscale e monetaria – poi, se perduranti, certificano condizioni di disordine nell’economia e di tentativo di determinare shocks che, se non ottenuti, generano solo sacrifici e danni per le parti coinvolte, concedendo rendite ad altre parti. Al presente, credo, il Nostro non giudicherebbe come ottimale una politica monetaria, protratta nel tempo, come quella definita di quantitative easing, ossia di allentamento e accomodamento monetario, se il risultato fosse l’annullamento o quasi dei saggi di interesse, val dire l’annullamento della remunerazione del fattore produttivo «capitale». Con conseguenti: riduzione del costo del pubblico indebitamento, che diviene in buona parte sostenibile per la circostanza in discorso, e riduzione dei consumi da parte dei percettori di interessi dal collocamento di capitali monetari. Con ripercussioni sul livello: della domanda di prodotti delle imprese, dei profitti, della propensione agli investimenti delle aziende. Per la sua opinione, la predetta politica monetaria gioverebbe solo a immettere liquidità statica nel sistema economico, se non riuscisse a generare prontamente sollecitazioni inflazionistiche, ancorché sappia contrastare spinte di deflazione. Le banche, poi, rileverebbero una diminuzione dei ritmi del loro cuore, dell’intreccio cioé delle entrate e delle uscite monetarie: ciò che Mattioli amava qualificare come velocità di rotazione delle relazioni di clientela. Infine con una diminuzione di redditività. Risultati che oggi osserviamo. Determinare divergenze per sospingere verso nuovi equilibri è già nel processo evolutivo dei mercati, non sempre con effetti generali vantaggiosi. Cercare di generare simili condizioni con la politica economica è come accettare una economia pianificata, non sempre efficace, secondo esperienza, per la crescita del benessere collettivo. Tanto più se la cura, decisa dalla mana pubblica, deve perdurare a lungo prima di raggiungere risultati tangibili. La scelta della strada del disordine per perseguire condizioni più distese non fu, certo, tra le opzioni di Raffaele Mattioli.
Il quale era però molto vigile al proposito del mutamento dell’ambiente esterno. La politica dei prestiti della Comit fu sempre molto attenta alle variabili prospettive dei vari settori produttivi, studiando, secondo gli insegnamenti originari del prof. Mortara, le «tendenze» monetarie ed economiche dei rami produttivi.
La globalizzazione economica sarebbe vissuta da Mattioli – a mio parere, ma credo di essere nel giusto – con particolare, personale, gusto intellettuale. Chiarendo che il compito di una banca non è tanto quello dell’articolazione multinazionale, ma di tessere un intreccio intemazionale di relazioni reciproche con al tri intermediari, per sapere facilitare alla clientela rapporti di affari, con una corretta scelta delle controparti e un controllo dei rischi di contropartita, congiungendo un sapiente servizio di cash management.
7. Conclusioni
Emerge dalle precedenti considerazioni, che Raffaele Mattioli aveva connaturate le caratteristiche per essere un Maestro.
E, invero, la sua Comit fu una fucina di dirigenti, che completarono la propria carriera presso altre banche, dopo avere appreso la lezione nella palestra della Commerciale. Incontrai la prima volta Raffaele Mattioli a Milano, nella sede di Piazza della Scala della Comit. Nella stanza dove mi ricevette (ero ancora nella fase iniziale della carriera accademica) vi era un tavolo rotondo centrale con sopra una piramide di libri, molti editi con il suo diretto o indiretto patrocinio. Non vidi testi di economia o di tecnica bancaria. Capii che riferendosi alla parola scritta di grandi uomini di pensiero si affinano anche le capacità dei nostri ragionamenti professionali, si diventa colti per sapere essere puntuali dibattendo i temi di una professione.
Compresi pure il suggerimento del prof. Zappa, mio Maestro alla Bocconi, di leggere, per capire la banca, le relazioni di bilancio della Comit, s’intende scritte da Mattioli. Che padroneggiava la lingua e la sintassi in guisa di dire e di scrivere in modo diverso anche le cose più comuni. E lettore attento di quelle relazioni fu anche il Governatore Guido Carli.
Il quale certo condivise con Mattioli che la Commerciale era una «banca mista», che doveva il più possibile restare nei confini di un’impresa di intermediazione, con il compito di cercare di modernizzare la finanza delle imprese italiane, agevolandole nell’inserimento internazionale, con il superamento del capitalismo familiare.
Compiti che furono affidati a Mediobanca, meritevole di altrettanti riconoscimenti da parte della comunità nazionale, pur ravvisando che talune incrostazioni sono difficili da eliminare, anche per la carenza di una legislazione moderna delle imprese e dei mercati mobiliari. Tra i traguardi auspicati da Mattioli e da Carli e delegati a Mediobanca, in realtà vi è ancora molto terreno da dissodare.
Credo, e non soltanto per i nostri rapporti di Scuola, che il libro di Andrea Calamanti debba essere suggerito ai giovani studenti, che debbono sempre ricordare (e purtroppo i giovani lo dimenticano) che in ogni esperienza passata vi sono condizioni destinate a ripetersi nel tempo, e che il pensiero di uomini illustri va sempre meditato, giacché ha in sé, quasi fosse un segno divino, la validità nel tempo. Altrimenti non continueremmo a leggere i classici, latini e greci.
E quella stanza di Mattioli, piena di libri che formavano una piramide a base circolare, quella del tavolo su cui erano posti, ci insegna che si può sempre imparare, riandando all’antico.
La nostra vita di solito è piena di incontri: alcuni da iscrivere nel lato dei doni ricevuti, altri dal lato opposto. L’incontro con Raffaele Mattioli è, nel mio caso personale, tra le ragioni di accrescimento della mia umanità."""

Per il momento ci fermiamo qui: torneremo ancora in argomento con altra interessante documentazione fornitaci dal Prof. Andrea Calamanti. Chi desidera leggere "La Banca di Raffaele Mattioli" può facilmente trovarlo nelle principali librerie o nei siti on line specializzati
nella vendita di opere letterarie.
piazzascala.it (A. Izeta)

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