Dal periodico dell'Associazione Bancari Caripuglia - UBI><Banca Carime   "Nuova Realtà" - n.ro 3, settembre 2016

Ancora una volta il tema Banche è all’ordine del giorno.
Quotidiani e televisioni non allentano la guardia su un argomento che pare di notevole interesse non solo per gli addetti ai lavori ma anche per la gente comune. Persone queste ultime di diversa estrazione sociale e culturale, con pochi interessi in comune se non quello della tutela del risparmio.
Si sa quanto sia importante il tema del risparmio per il cittadino medio italiano. Il gruzzoletto da mettere da parte per la vecchiaia o per il matrimonio dei figli che si è oggi trasformato in fondo di sostentamento per i figli senza lavoro. Non parliamo ovviamente degli investitori professionisti con elevata propensione al rischio, ma di gente comune che si trova nelle condizioni di dover supplire con mezzi propri alla progressiva contrazione del sistema di wel- fare determinato dalle politiche economiche avviate negli ultimi decenni.
I più recenti accadimenti delle quattro banche salvate dal fallimento con l’involontario contributo di ignari risparmiatori, diventati d’un sol colpo investitori esperti non per loro merito ma per improvvisa promozione sul campo, hanno poi alimentato l’intolleranza verso un sistema già vissuto come mostro fagocitante le altrui risorse. Fatto sta che gran parte di quei risparmiatori non aspirava a tale riconoscimento e nessuno di loro avrebbe mai immaginato di dover annoverare il termine anglosassone “bail in” tra le cause dei propri disagi.
Bail in si può tradurre come “salvataggio interno” e definisce in sostanza l’operazione di ricostituzione del capitale di una banca in crisi mediante assorbimento delle perdite da parte di azioni ed altri strumenti finanziari posseduti dagli investitori della banca, estendendosi in via subordinata anche ai depositi bancari di importo superiore a 100.000 euro, per la parte eccedente tale soglia.
Il Bail in è parte della Direttiva europea BRRD (Bank Recovery and Resolution Directive) emanata nel 2014, che istituisce un quadro di risanamento e risoluzione degli enti creditizi e delle imprese di investimento, tendente sostanzialmente ad evitare che si possano coprire le perdite dichiarate da istituzioni finanziarie sull’orlo del dissesto con intervento statali. In realtà il cancello è stato chiuso dopo che i buoi sono scappati come dimostrano i molteplici interventi con finanza pubblica posti in essere da diversi paesi europei negli anni precedenti.
L’avessimo fatto in Italia, si sarebbero tutti affrettati ad esclamare: eh i soliti furbi! Il fatto che casi del genere sono avvenuti anche in Germania, per restare in Europa, da un lato ci fa capire che non siamo poi così furbi come pensiamo e dall’altro ci conferma che le Istituzione tedesche sono sì avvedute e competenti ma anche scaltre ed autoreferenziali. E sono le stesse che hanno poi chiesto il default delle banche greche in difficoltà e della Grecia tutta.
Certo che i risparmiatori delle banche italiane salvate non l’hanno presa bene. Come non hanno poi del tutto gradito il successivo intervento governativo avviato per salvaguardare almeno in parte i loro risparmi, del quale hanno denunciato l’iniquità per aver circoscritto rigidamente il perimetro degli aventi diritto al rimborso in maniera automatica, rinviando gli esclusi all’esito degli arbitrati.
Occorre dire in verità che il tortuoso percorso seguito dal governo italiano per arrivare alla definizione dell’intervento, è stato irto di difficoltà a causa dei vincoli europei che impongono agli Stati membri di non utilizzare fondi pubblici per salvare istituti di credito in difficoltà. Alla fine la quadra la si è trovata ma il risultato è apparso ai più insoddisfacente.
La vicenda non è ancora conclusa, ma il polverone mediatico che ha scatenato, ha avuto perlomeno il merito di portare all’attenzione di tutti i rischi impliciti di certo tipo di investimenti, fino ad oggi sotto- valutati per ignoranza (nel termine letterale della parola) o superficialità, se non per eccessiva fiducia mal riposta. Avessero i risparmiatori di Banca Etruria riletto il Pinocchio di Collodi nel passaggio che vede il protagonista raggirato dal Gatto e la Volpe riguardo l’immediata crescita di alberi con rami penzolanti di monete d’oro al sol deporre sotto terra un piccolo gruzzoletto, una riflessione in più l’avrebbero forse fatta. O rivolgendosi a terzi disinteressati o approfondendo in proprio la conoscenza degli strumenti finanziari e della rischiosità insita in promesse di rendimenti eccessivi rispetto agli standard del momento.
D’altro canto occorre dire che progressivamente le banche, che già non vivono periodi di massimo gradimento da parte dell’opinione pubblica, hanno accentuato il livello di attenzione in tema di profilatura dei clienti e di adeguata rappresentazione dei prodotti finanziari da collocare.
Agli occhi dei più rimane comunque inspiegabile, in linea di principio, il concetto di correità insito nel bail-in che ribalta sugli investitori la responsabilità di ripianare le perdite prodotte da amministratori disinvolti.
Nel corso dei diversi dibattiti televisivi si è più volte ascoltata la voce di rappresentati delle associazione di categoria, che a difesa dei propri associati richiamavano la sostanziale incompetenza ed estraneità del portatore di obbligazioni subordinate, se non dell’azionista minore, nelle scelte del management. Dall’altra parte economisti e rappresentanti del mondo della finanza a spiegare che il tempo degli interventi pubblici nel salvataggio delle banche è finito e che l’azienda bancaria non è diversa da qualsiasi impresa che ha l’obiettivo di generare utili a fine periodo, con dividendi a beneficio degli azionisti, o perdite, che come in ogni altra azienda dovrebbero essere coperte dal patrimonio.
Le pur diverse argomentazioni non sono affatto peregrine. Il fatto è che questi accadimenti sono figli dei tempi. Non si può pensare di rimanere ancorati al concetto di remunerazione del risparmio del secolo scorso in periodi di tassi bassissimi, se non talvolta negativi come capita ai titoli di Stato, aspettandosi rendimenti cospicui in assenza di rischi sul capitale. Né tantomeno si può pretendere che la privatizzazione del Sistema bancario, con tutti i limiti che si trascina da tempo, determini sempre una sorta di collettivizzazione delle perdite e di privatizzazione degli utili. Si può però auspicare un maggior equilibrio nella gestione e nelle scelte del management che, se improntate a criteri di capacità e di merito, dovrebbero garantire una guida appropriata scevra dai rischi di condotte temerarie troppo spesso associate a fattori di inadeguatezza.
Il mondo degli affari, in qualsiasi settore e a qualsiasi latitudine, è sempre stato portatore della dicotomia tra interessi e trasparenza. E’ il momento che tutti si impegnino ad azzerare le differenze tra i due elementi, peraltro non incompatibili, in nome di un progresso sociale ed economico generalizzato e non divisivo.

 

Gennaro Angelini

 

 

 

 

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